Visita guidata nel quartiere Castello (Cagliari) - secondo itinerario

di Luigi Orrù di San Raimondo

Piazza Arsenale – Piazza Indipendenza – Via Lamarmora (primo tratto) – Vico Martini – Via Santa Croce – Via Università – Via De Candia – Via Lamarmora (ultimo tratto) – Piazza Carlo Alberto – Piazza Palazzo – Via Martini – Piazza Indipendenza

Piazza Arsenale

Anche questo itinerario per le strade di Castello parte da una importante piazza, la Piazza Arsenale.

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Porta Cristina

Ingresso al Castello da Viale Buoncammino: Alla Piazza Arsenale si può accedere dal Viale Buoncammino o dalla Salita de S’Avanzada. L’arrivo da Viale Buoncammino ci permette di ammirare la Porta Cristina, costruita nel 1825 da Carlo Pilo Boyl di Putifigari. Nella foto in bianco e nero scattata nel 1854 da Edouard Delessert si nota come dietro la Porta fossero presenti dei fabbricati che rendevano angusta la Piazza Arsenale.

Ingresso al Castello dalla salita di S'avanzada: In quest’altra foto in bianco e nero, anch’essa scattata dal Delessert nel 1854, si nota l’ingresso orientale al Castello che precedeva la porta di S’Avanzada. Oggi l’arco non esiste più e la lapide che ricorda la sistemazione della zona da parte di Vittorio Amedeo II nel 1728, è posta sulla roccia a destra.
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Ingresso dalla salita di S'avanzada
Porta di San Pancrazio:
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Porta di San Pancrazio
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Regio Arsenale

Regio Arsenale: Già nel 1825, la sistemazione della Porta dell’Arsenale, effettuata da Carlo Pilo Boyl di Putifigari, contribuì a modificarne l’aspetto. Le successive demolizioni degli edifici e la riqualificazione del “Regio Arsenale” a Cittadella dei Musei ne sancì la “conversione” da area dedicata a scopi militari e difensivi ad area destinata a funzioni “civili”.
La Cittadella dei Musei è oggi una meta imprescindibile per chi visita Cagliari. Ospita, tra l’altro, le collezioni del Museo Archeologico, la collezione Cardu d’arte Siamese, la collezione delle cere Susini e la Pinacoteca Nazionale.


Palazzo delle Seziate: La Piazza Arsenale è divisa dalla Piazza Indipendenza dall’imponente Palazzo delle Seziate. Il nome di questo Palazzo proviene dalle "sedute" durante le quali i viceré spagnoli ascoltavano le rimostranze e le suppliche dei detenuti nelle adiacenti carceri ubicate presso la torre di San Pancrazio. Il nucleo originale, ad un solo piano, risale alla fine del XVI - inizi del XVII secolo mentre la sopraelevazione fu compiuta nel 1838, come ricorda un'iscrizione posta sulla porta visibile dalla Piazza Indipendenza.
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Palazzo delle Seziate

Piazza Indipendenza

Superato il portico del Palazzo delle Seziate entriamo nel quartiere Castello arrivando nella Piazza Indipendenza. Il monumento più significativo è la Torre di San Pancrazio, costruita in epoca pisana.
Nella Piazza si trova poi il Conservatorio della Provvidenza, il Museo Archeologico, il Palazzo Sanjust ed il Palazzo Amat.

Torre di San Pancrazio: La torre venne edificata nel 1305 dall’architetto Giovanni Capula a difesa dell’ingresso settentrionale di Castello. Nel 1328 gli Aragonesi murarono il lato verso la Piazza Indipendenza, ed adibirono la torre in parte come dimora dei propri funzionari, in parte come magazzino. Con l’apertura del palazzo delle Seziate, nel XVII secolo, la torre perse la sua funzione di ingresso al Castello e venne utilizzata come carcere fino alla fine dell’800. Nel XX secolo venne riaperto il lato verso la Piazza Indipendenza.

Conservatorio della Provvidenza: Il complesso è stato fino al 1831 Collegio dei Nobili. Successivamente ospitò il Conservatorio delle figlie della Provvidenza. Venivano qui ospitate ragazze provenienti da famiglie povere che, come dice lo Spano, "vengono educate nella pietà, ed instruite nei primissimi rudimenti dell'umano sapere, e nelle faccende domestiche. La maggior parte hanno piazza gratuita, e le altre pagano la pensione di L. 400". Qui insegnò dal 1885 al 1889 Suor Giuseppina Nicoli, oggi beatificata. Col tempo il Conservatorio funzionò da collegio per ragazze fino alla sua chiusura avvenuta alla fine degli anni '90. Attualmente l'edificio necessita di un intervento di ristrutturazione e riqualificazione.
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Conservatorio della Provvidenza

Museo Archeologico : Il Museo venne costruito tra il 1904 ed il 1906 su progetto dell’Ing. Dionigi Scano nel luogo dove sorgeva il carcere femminile. Le sue importanti collezioni sono state trasferite dal 1993 nei locali della Cittadella dei Musei (P.zza Arsenale).

Palazzo Sanjust: L’area del palazzo fu originariamente sede di un Convento fino ai primi del ‘600, subito dopo divenne sede dell’Università e nell’Ottocento caserma e scuderia. Nella sua forma attuale il palazzo è databile alla fine dell’800 e la sua storia è legata a due grandi personaggi di questa importantissima famiglia: Edmondo ed Enrico Sanjust.
Edmondo Sanjust Roberti (1858 – 1936), laureatosi poco più che ventenne in ingegneria, entrò nel Genio Civile dove percorse una fulgida carriera divenendo Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Realizzò, tra gli altri, il piano regolatore di Roma. Fu Consigliere Comunale di Cagliari dal 1888 al 1905, Deputato per diverse legislature, Senatore. Negli anni 1919 e 1920 ricoprì la carica di Sottosegretario di Stato ai Trasporti. Tra gli interventi realizzati a Cagliari vi è appunto la costruzione del Palazzo Sanjust e l’ampliamento del Palazzo Amat.
Enrico Sanjust Amat (1846 – 1934), Conte Palatino, fu una grande figura di intellettuale. Brillante avvocato, critico acuto, importante giornalista, rappresentò un autentico punto di riferimento per il mondo cattolico cagliaritano. Enrico visse nel palazzo di Piazza Indipendenza assieme alla moglie Maria Amat. La sua discendenza abitò il palazzo fino a pochi anni or sono quando l’edificio fu venduto alla massoneria.

Via Lamarmora

Palazzo Amat (Via Lamarmora, 138 - Piazza Indipendenza, 2): Le prime notizie sugli abitanti del palazzo risalgono alla seconda metà del ‘700 quando ne risultano proprietarie Donna Anna Maria Serra (vedova di Don Giovanni Battista Masones) e la figlia Anna Masones. Il palazzo venne acquistato dallo Stato nel 1799 per essere restaurato e messo a disposizione del futuro Re Carlo Felice, il quale però preferì l’ospitalità dell’amico Stefano Manca nella Villa d’Orri. La casa venne dunque venduta nel 1801 per Lire sarde 26.753, soldi 8 e denari 10 al Marchese di Villarios Don Francesco Amat. Successivamente il palazzo fu venduto dal Marchese di Villarios al cugino Vincenzo Amat Amat, Marchese di San Filippo. Ancora oggi è abitato dai discendenti di Vincenzo Amat Amat.
La Casa, che dà sia sulla Piazza Indipendenza che sulla Via Lamarmora, venne ampliata alla fine dell’800 su progetto di Edmondo Sanjust addossando l’edificio alla Chiesa della Purissima. Nella volta dell’atrio è dipinto lo stemma della famiglia Amat.

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Palazzo Amat
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Palazzo Amat

Palazzo Amat (V. Lamarmora 159-155): Il palazzo appartenne nel XIX secolo a Don Giuseppe Amat Amat e Donna Cristina Manca Thiesi. Don Giuseppe (nato nel 1791 e morto nel 1867) era il figlio cadetto di Don Giovanni Amat Manca Guiso, Marchese di San Filippo, Marchese d'Albis etc, e Donna Eusebia Amat Baronessa di Sorso. Oltre a questo palazzo, Don Giuseppe risultava proprietario del palazzo poco distante in Via Lamarmora 135-133, poi passato ai Sanjust di San Lorenzo e successivamente ai Ruda.

Chiesa della Purissima (V. Lamarmora): Subito dopo Palazzo Amat e di fronte ad un altro palazzo posseduto da Giuseppe Amat di San Filippo (fratello del Marchese Vincenzo Amat Amat), troviamo la Chiesa della Purissima.
La Chiesa, deve il proprio nome al monastero della Purissima Concezione, costruito nel 1554 e di cui divenne parte integrante (in tempi più recenti l’area del monastero è stata ristrutturata ed adibita ad istituto scolastico).
Nel 1554 infatti la nobildonna Gerolama Ram, esponente di una famiglia originaria di Saragozza e stanziatasi a Cagliari, mise a disposizione cinquantamila lire sarde per la costruzione del monastero e qui si ritirò a vivere, secondo le regole di Santa Chiara, assieme a cinque compagne. La costruzione del monastero della Purissima fu voluta e sostenuta anche dall’Arcivescovo di Cagliari e dalla nobile famiglia Brondo, il cui patronato sulla chiesa è attestato dallo stemma nobiliare, posto sopra l’arco a sesto acuto.
Durante l’esilio della corte sabauda la Chiesa fu il luogo della preghiera del Re Carlo Emanuele IV e della moglie Maria Clotilde.
Costruita in stile gotico, vi si accede attraverso l’ingresso laterale con arco a sesto acuto (sopra il quale, come detto, troviamo lo stemma Brondo). L’interno è a navata unica divisa in due campane coperte da volte a crociera, con tre cappelle laterali per lato, a pianta rettangolare e volta stellare, comunicanti con la navata attraverso archi a sesto acuto modanati a tori e gole.
La Chiesa, chiusa da circa trent’anni per interminabili lavori, sarà prossimamente riaperta al pubblico.

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Chiesa della Purissima

Svoltando sulla destra in Vico Martini, e proseguendo dritti si entra in quello che anticamente è stato il ghetto degli ebrei.

Via Santa Croce

La storia degli ebrei in Sardegna è molto antica. Rinviando agli eccellenti scritti di Cecilia Tasca sull'argomento, possiamo dire che i primi insediamenti risalgono al 19 d.C. durante l'Impero di Tiberio. A questo primo trasferimento ne seguirono diversi altri in quanto l'isola fu sempre considerata terra di confino, ed è quindi molto probabile che essi a più riprese siano stati trasferiti in Sardegna per motivi religiosi o di ordine pubblico. Per poter parlare però di vere e proprie comunità ebraiche organizzate dobbiamo aspettare la conquista aragonese. A Cagliari è probabile che già durante la dominazione pisana fossero presenti famiglie ebraiche lungo l'odierna Via Santa Croce. L'arrivo nel Castello di diverse famiglie ebree catalane e maiorchine nel 1332 costrinse in breve tempo gli ebrei ad occupare la via Santa Croce, la Via Corte d'Appello e la Via Stretta, dando vita ad un vero quartiere con concessioni ed un vero e proprio ordinamento. La comunità ebraica raggiunse il suo apice verso la metà del XV secolo, quando raggiunse le 1000 unità, e la sua juharia (ormai scissa in due tra una parte più antica ed una minore) occupava ormai un buon terzo del Castello. Nel quartiere ebraico era naturalmente presente anche una sinagoga, al posto dell'odierna Chiesa di Santa Croce, già esistente nel 1341.

Percorrendo la Via Santa Croce sulla sinistra è possibile vedere la Chiesa di Santa Maria del Monte.


Chiesa di Santa Maria del Monte

Chiesa di Santa Maria del Monte: La Chiesa fu eretta nella seconda metà del XVI secolo dall’omonima Arciconfraternita.
L’interno presenta un’unica navata suddivisa in tre campate con volte a crociera. Tra queste, assai rilevante appare la terza, l’antico presbiterio, caratterizzata da un’elegante volta stellare con gemme pendule nelle quali sono scolpiti i simboli dell’Arciconfraternita. Di rilievo anche l’arcata ribassata del coro, stilisticamente omogenea, anche se costruita successivamente, al resto della struttura.
Agli inizi del ‘600 l’allungamento della chiesa favorì la realizzazione di un nuovo ambiente, l’attuale presbiterio, tipicamente rinascimentale per la sua classica regolarità, con cupola e quattro scuffie agli angoli, di stile gotico-rinascimentale. Sempre nel ‘600 vennero costruite la sacrestia e una cappella laterale, con un’arcata frontale di stile classico e la volta a botte.
In seguito alle leggi Siccardi emanate all’indomani dell’Unità d’Italia, passò al Comune in cambio della Chiesa di San Giuseppe che fu acquisita dalla Curia cagliaritana nel 1866, anno in cui fu sciolta l’Arcionfraternita. Dopo queste vicende la Chiesa ospitò la seconda sede della Corte d’Assise.
Dopo un lungo e accurato lavoro di restauro, la Chiesa è stata riaperta nel 1999 e affidata dal Comune in gestione al Sovrano Militare Ordine di Malta, che ha stabilito qui la propria sede e ne cura l’apertura al pubblico nel fine settimana.

La Confraternita del Santo Monte della Pietà, istituita nel 1530, ebbe tra i suoi compiti principali l’assistenza ai bisognosi, la visita ai carcerati, il conforto e la sepoltura dei condannati a morte. Dal momento in cui la sentenza di morte diventava esecutiva, il condannato veniva preso in consegna dalla comunità del Santo Monte di Pietà e, prelevato dalla sua cella nella torre di San Pancrazio veniva trasferito nella chiesa. Settantadue ore fino ai primi dell’Ottocento, e ventiquattr’ore poi, era il tempo che il condannato doveva trascorrere nella chiesa, e in quelle ore si alternavano presso di lui il sacerdote e i confratelli. Dopo aver ricevuto gli ultimi pasti in vasellame d’argento, il condannato veniva accompagnato al patibolo e alla sepoltura. I Confratelli, infine, si occupavano di custodire gli strumenti dell’esecuzione per evitare che venissero utilizzati per sortilegi e di bruciarli nel giorno di San Giovanni Battista.

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Interno della Chiesa
Ex Caserma San Carlo: Proseguendo, sulla parte destra è possibile vedere i locali che un tempo ospitarono la Caserma San Carlo. Il complesso, costruito nel 1738, si compone di due edifici separati da un lungo cortile. Nel portale compare una lapide che ricorda la costruzione. Parte dell’ex caserma è stata recentemente ristrutturata e riaperta al pubblico per mostre ed eventi culturali.

Basilica di Santa Croce: La chiesa, costruita lì dove un tempo era la Sinagoga, venne affidata nel 1530 alla Confraternita del Santo Monte di Pietà che la tenne fino al 1564, anno in cui i gesuiti arrivarono a Cagliari ed ebbero la Chiesa con alcuni locali adiacenti. La Chiesa venne rinnovata ed ingrandita grazie alla benefattrice Donna Anna Brondo Orrù, esponente di una delle più ricche famiglie cagliaritane. La famiglia Brondo, originaria di Maiorca, ebbe i titoli di Marchese di Villacidro, Marchese di Palmas e Conte di Serramanna. Donna Anna, morta nel 1598, aveva nominato eredi testamentari e curatori della sua anima i padri della Compagnia di Gesù. Nel 1661 Don Felice Brondo, terzo Marchese di Villacidro, ricordava la sua antenata, di cui si dichiarava pronipote, facendo scolpire sul frontone d’ingresso lo stemma marchionale portante inquartate le insegne dei Brondo, Gualbes, Ruecas e Zuniga e la scritta “A Donna Anna Brundo, fondatrice, l’illustrissimo Don Felice Brondo, Marchese di Villacidro, Pronipote, nell’Anno 1661”.
La Chiesa rimase di proprietà dei gesuiti fino al 1773, quando l’Ordine fu soppresso, dopodiché passò allo Stato. Nel 1809 Vittorio Emanuele I concesse la Chiesa all’Ordine Mauriziano, dichiarandola Basilica Magistrale. Rimasta chiusa al pubblico per oltre vent’anni è stata ristrutturata e riaperta al pubblico solo recentemente.
L’interno è a navata unica con cappelle laterali voltate a botte e affrescate.

Collegio Gesuitico : Tra la Chiesa di Santa Maria del Monte e la Basilica di Santa Croce, nella Via Corte d'Appello parallela a Via Santa Croce, si trova il Collegio Gesuitico di Santa Croce, oggi sede della Facoltà di Architettura dell'Università di Cagliari.

Ritornando in via Santa Croce e proseguendo, arriviamo ad uno slargo in cui si trovano la Chiesa di San Giuseppe Calasanzio e la Torre dell’Elefante.

Chiesa di San Giuseppe Calasanzio: I lavori di costruzione della Chiesa, avviati a partire dal 1663, proseguirono fino al 1700 e, dopo vent’anni di interruzione a causa delle guerre di successione spagnola, verranno ripresi nel 1720, per concludersi nel 1735.
Il portale è sovrastato da un timpano a cornice curva spezzata, con all'interno lo stemma degli Scolopi. L'interno è a unica navata voltata a botte, con tre cappelle intercomunicanti ai lati e profondo presbiterio coperto da cupola su tamburo ottagonale. Sono inoltre da evidenziare l'imponente altare maggiore in marmi policromi, risalente al 1777, opera dello scultore Giovanni Battista Franco, il pulpito e la balaustra del presbiterio anch'essi marmorei e presumibilmente coevi.
La Chiesa è in attesa di un restauro che ne permetta la fruizione al pubblico dopo oltre trent’anni di chiusura.



Torre dell'Elefante : La Torre dell’Elefante venne costruita dai pisani nei primi anni del 1300 e terminata nel 1307 dall’architetto Giovanni Capula. Durante la dominazione spagnola il lato verso Nord venne murato e la torre venne utilizzata come Prigione di stato. Nella Torre vennero esposte per diciassette anni le teste mozzate di Don Silvestro Aymerich, Don Francesco Cao e Don Francesco Portugues, accusati dell’omicidio del Viceré Camarassa nel 1668, mentre il Marchese di Cea, Don Jacopo Artaldo di Castelvì, fu giustiziato nella odierna Piazza Carlo Alberto e il suo corpo sepolto e tumulato dai confratelli del Monte di Pietà nella Chiesa di Santa Maria del Monte.

Via Università


Ex Collegio degli Scolopi

Ex Collegio degli Scolopi: Sulla sinistra, all’inizio della Via Università, troviamo l’ex collegio degli Scolopi, oggi sede del Liceo Artistico.

Palazzo dell'Università : L’Università degli Studi fu istituita nel 1626 durante il regno di Filippo IV, re di Spagna. Sotto Carlo Emanuele III, re di Sardegna, nel 1764 l’ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco elaborò il progetto per sistemare in un unico complesso il palazzo dell’Università, il Seminario Tridentino ed il Teatro, quest’ultimo mai realizzato. Una volta rientrato a Torino l’ingegnere Famolasco, il progetto originario venne in parte snaturato e realizzato diversamente anche per gli aspetti stilistici. Si tratta di uno dei più importanti edifici costruiti dall’amministrazione sabauda nel Settecento nell’Isola e si lega al programma illuministico di Carlo Emanuele III, che comportava, tra l’altro, la riforma delle Università sarde come sedi massime di formazione di professionalità scientifiche ed intellettuali. La facciata, semplice e lineare, comprende tre ordini di finestre, il primo caratterizzato da una cornice aggettante, il secondo da un timpano curvilineo. L’ampio portale si apre sull’atrio, dal quale si accede al cortile centrale a pianta quadrata. Una doppia scala simmetrica dal cortile porta al bastione retrostante, mentre una semplice scala laterale conduce ai piani superiori dove si trovano l’aula magna con soffitto a cassettoni e interessanti dipinti alle pareti, e le sale del rettorato

Palazzo dell'Università
Biblioteca Universitaria (Ex seminario tridentino): La Biblioteca viene istituita nel 1764 con le “Costituzioni” per la riforma dell’Università, riceve un regolamento da Vittorio Amedeo III nel 1785 e viene aperta al pubblico nel 1792 nella Sala Settecentesca, al primo piano del nuovo palazzo dell’Università. Il nucleo iniziale è costituito dai testi tratti dalla Biblioteca privata del sovrano, da doni di personalità di rilievo come il ministro Bogino, dai fondi acquisiti dalla soppressione dell’Ordine dei gesuiti, dalle copie delle opere che i docenti erano tenuti a fornire alla Biblioteca, dalle pubblicazioni degli stampatori del Regno, dalle opere stampate a Torino dalla Tipografia Regia. Nel piano seminterrato dello stesso palazzo che ospita la Biblioteca Universitaria, si trova la cappella domestica delle Suore della “Congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Genoni. La Congregazione delle Figlie di San Giuseppe di Genoni vide la luce proprio in questo palazzo nel 1888 per volontà del P. Felice Prinetti, allora rettore del Seminario, che riunì il nucleo di Suore che svolgevano il loro servizio nel Seminario Tridentino in Congregazione. Questa svolse il suo servizio ecclesiale dal 1888 al 1956 e la Cappella domestica rappresentava il cuore del piano abitato dalle Suore. Nel 1955 il Vescovo di Cagliari, cedette i locali del Seminario Tridentino all’Università. La Cappella domestica è stata restaurata tra il 2002 ed il 2004 proprio per conservare la memoria storica di un luogo tanto insigne e per rendere omaggio alla Congregazione religiosa che proprio in questo edificio iniziò il suo servizio ecclesiale.
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Biblioteca Universitaria

Proseguendo per la Via Università sulla sinistra si trova l'Ex Teatro Civico.

Ex Teatro Civico: Nel 1755 l’Ing. Belgrano, propose al governo Sabaudo uno studio progettuale per la realizzazione nell’Area del Balice di una struttura destinata a teatro. Tale proposta non fu approvata dal governo, ma trovò l’interesse del Barone Zapata, che tra il 1764 e il 1766 realizzò l’intervento. Il teatro era costituito da un palcoscenico e da tre file di palchi. La gestione e manutenzione del teatro divenne nel tempo un costo economico notevole per la famiglia Zapata, tanto che nel 1831 il Teatro venne venduto all’amministrazione civica in cambio di una proprietà agricola nella periferia di Cagliari. Nello stesso anno iniziarono i lavori di restauro progettati dall’Architetto Melis.
Nel 1833, della redazione del progetto del teatro, venne incaricato l’illustre Architetto cagliaritano Gaetano Cima, gli fu richiesto di formare quattro ordini di palchetti e di modificare l’ingresso a ponente e quello dal Castello. Per la realizzazione dell’opera si dovette preventivamente procedere all’acquisto di locali contigui appartenenti alla famiglia Zapata e ottenere l’assenso al sollevamento del tetto del teatro. Nel 1836 iniziarono i lavori di demolizione del teatro di Belgrano e di costruzione del nuovo teatro del Cima.
Dopo che per oltre sessant’anni sono rimaste visibili esclusivamente i ruderi delle mura perimetrali, il Comune ha provveduto ad un intervento di restauro che, seppur non riportando il teatro alla sua bellezza originaria, ne ha quantomeno permesso la fruizione per concerti ed attività.

Palazzo Boyl (Via Mario de Candia): Il palazzo venne costruito intorno al 1840 dal Conte Carlo Pilo Boyl di Putifigari. L’edificio sorge sulle rovine della Torre dei Leoni, costruita nel 1300 assieme alle Torri di San Pancrazio e dell’Elefante, e già nel ‘600 in condizioni di forte degrado. Il palazzo per le sue dimensioni è uno dei più maestosi del quartiere. Da notare la lunga balaustra in marmo con statue raffiguranti le stagioni e lo stemma dei Pilo Boyl di Putifigari. Sulla facciata sono infisse le palle di cannone a ricordo dei bombardamenti del 1708, 1717 e 1793. Il palazzo divenne alla fine del XIX secolo di proprietà del Barone Rossi ed oggi è abitato dalla famiglia Tomassini Barbarossa, discendente della famiglia Rossi.

Via Lamarmora

Superando il portico sotto il Palazzo Boyl si può percorrere la Via Lamarmora.

Palazzo Rossi (V. Lamarmora, 2/6 - V. Genovesi, 1/3): Il palazzo è costruito a forma triangolare con un lato verso via Lamarmora e l’altro verso via Genovesi, ed è articolato su tre piani con diversi spunti di stile neoclassico. Dalle mappe del vecchio catasto di metà 800 risulta come l edificio, sulla via Lamarmora, fosse originariamente più corto: tra il palazzo Rossi e l’ora adiacente palazzo Asquer ve n’era un altro appartenente agli eredi Arnoux, che fu inglobato nel palazzo Rossi, rendendo omogeneo l’intero fabbricato, forse ricostruito per l’occasione. Il palazzo appartenne al Barone Rossi, probabilmente il personaggio più rappresentativo di quella borghesia emersa a Cagliari nell’Ottocento. Le origini della famiglia Rossi sono calabresi. Il padre di Salvatore, Francesco Antonio, giunse a Cagliari nella seconda metà del XVIII secolo sposandosi con tal Rafaela Piras. Salvatore, nato a Cagliari nel 1775, divenne ben presto uno dei personaggi più ricchi ed importanti di Cagliari grazie alle sue attività imprenditoriali. Creato Barone nel 1847 lasciò ai suoi eredi diversi palazzi: il palazzo all’inizio di Via Lamarmora, il palazzo Boyl, il palazzo Rossi di Piazza Martiri e quello di Piazza Yenne, nonché la Villa Rossi, originariamente fabbrica e poi divenuta residenza di campagna di un ramo degli Aymerich imparentatosi coi Rossi.

Palazzo Asquer (V. Lamarmora, 8/14): Il palazzo, piuttosto semplice stilisticamente, risulta di proprietà del Visconte Asquer fin dal XVIII secolo.

Palazzo Barca Pirisi (Borro) (V. Lamarmora, 18 - V. Genovesi, 7/15): Adiacente al Palazzo Asquer troviamo salendo l'antica casa di Don Giannantonio Borro Aymerich, concessa in enfiteusi perpetua ereditaria al conte Don Pietro Fancello Intendente generale del Regno, che vi teneva pure l’ufficio e vi fece dei notevoli miglioramenti, con atto ricevuto Massa 31 ottobre 1806 previa Carta Reale del precedente 12 agosto che lo autorizzava, essendo la casa sottoposta a fidecommesso ordinato dal fu zio paterno monsignor Don Giovanni Antonio Borro, abate e poi vescovo di Bosa. La casa ceduta al conte Fancello era costruita in forma e gusto antico, e non poteva servire in gran parte che per abitazione di piccole famiglie povere. Era formata un tempo da più abitazioni poi riunite insieme. Nel 1804 per ordine governativo, la facciata che dava sulla via dritta, oggi Lamarmora, fu demolita e fabbricata di nuovo; per non avere la somma disponibile Don Giannantonio Borro dovette prenderla a censo dagli Eredi Ponsiglioni. Dell’antica facciata rimane oggi solo il portone bugnato alla romana, di stile manieristico. La casa ed i suoi confini nel 1806 sono così descritti: “una casa grande nella strada dritta, che confina a casa dell’Ill.mo Sig. Visconte di Flumini Don Francesco Maria Asquer a una parte, ed all’altra a casa similmente di Giuseppe Maria Orrù, e dirimpetto a casa degli Eredi del fu Don Francesco Maria Viale, e che prima era del Conte Musso strada frammezzo, la qual casa posseduta sporge alla strada così detta dei Genovesi, dove anche ha il suo comodo ingresso per altre abitazioni della stessa casa, e confina con casa dei RR.PP. Scolopi da una parte, e dall’altra con casa dello stesso Giuseppe Maria Orrù, e dirimpetto strada mediante a casa degli Eredi del fu Don Ignazio Meloni”.
Dall’inventario dei beni appartenuti al Conte Fancello, apprendiamo che possedeva una cappella ad armadio, in legno dipinto, con due gradini, spalliera in tela,dipinti e vetrate.
Dalla parte di via dei Genovesi esisteva una carrozziera con la sua cisterna, non ceduta al Fancello, posta sotto l’abitazione affittata a Don Antonio Porcile. Nel 1816 era in possesso della casa, come erede del fidecommesso Borro, la nipote Donna Marianna Piras-Borro col marito Don Antonio Vincenzo Sanna-Borro. I loro discendenti, alla fine del secolo, si trasferirono in un altro palazzo in via S. Giuseppe n.1 (oggi De Magistris), ereditato dalla famiglia Porqueddu e la casa di via Lamarmora divenne di proprietà di Salvatore Barca-Pirisi, di Sarule, sposato con Doloretta Cao Pinna.

Palazzo Orrù (V. Lamarmora 24/26 - V. Genovesi 17/19)

Palazzo delle "Cinque teste" (V. Lamarmora 27/35): Scheda in corso di preparazione
Palazzo Carboni (V. Lamarmora 37/41 - V. Canelles 36/38): Scheda in corso di preparazione

Palazzo Asquer Nin - Pilo Manca (V. Lamarmora, 38/40 - V. Genovesi 21/27): Scheda in corso di preparazione

Palazzo già Aymerich di Villamar (Via Lamarmora): L'edificio tra i civici 51 e 57, di cui resta in piedi solo la facciata, oggi murata, sulla via Lamarmora, era l'antica residenza degli Aymerich, conti di Villamar. La sua prima attestazione risale al 1563, quando viene nominata nell'inventario dei beni di Don Salvatore Aymerich, Signore di Villamar, figura tra le più rilevanti del XVI secolo.
In esso viene specificato che prospettava sulla via Lamarmora con le case del conte di Laconi, Castelvì, e in parte con le case di Don Sebastiano Gessa; di spalle, sull'odierna via Canelles, prospettava invece con le case del Nobile Don Ranieri Bellit y de Aragall, strada dei cavalieri frammezzo (oggi Palazzo Pes di S. Vittorio). Sul lato destro infine confinava con case del nob. Don Pietro de Alagon (poi Palazzo Otger-Carnicer-vedi primo itinerario), mentre sul lato sinistro confinava parte con le case del nobile Don Monserrato Sanjust verso la via Canelles e parte con case dell Egr. Misser Giovanni Atzeni verso la via Lamarmora, oggi rispettivamente Palazzo Carboni e Palazzo Ponsiglioni già Rodriguez. L'edificio rimase residenza degli Aymerich, ormai conti di Villamar, fin quasi al volgere del '700, quando ereditarono i beni e i feudi dei Castelvì, divenuti a loro volta marchesi di Laconi e si trasferirono nel palazzo marchionale, più prestigioso e attraversato dall'omonimo portico. Risalgono infatti a questo periodo le cornici delle finestre secondo i nuovi gusti dello stile piemontese, diffuse in numerosi palazzi del quartiere e ancora indovinabili sotto uno strato di cemento. Più tardi, all' inizio dell' Ottocento, appartenne allo speziale Giuseppe Lai e successivamente alla figlia Anna Maria. Durante i bombardamenti anglo-americani del 1943 il palazzo fu completamente sventrato da una bomba, che danneggiò in parte anche gli attigui Palazzi Otger, oggi abbandonato, e Carboni Ponsiglioni, che vennero invece risistemati. La stessa raffica di bombe sventrò anche il prospiciente Palazzo dei Marchesi di Laconi che gli Aymerich avevano ereditato dai Castelvì, di cui rimane in piedi ancora il solo portico, murato.

Altre due abitazioni contigue degli Aymerich erano nell attuale via Duomo, presso il loro oratorio privato o chiesa della Speranza, di proprietà nel 1655 una di Don Melchiorre Aymerich e l'altra della Nobile Donna Anna de Castelvì Aymerich vedova di Don Angelo de Castelvì, venduta all asta il 27 agosto dello stesso anno al Cav. Gregorio Otger e posseduta dai suoi eredi fino all estinzione della famiglia.

Palazzo Otger (Via Lamarmora - Vico I Lamarmora): Vedi scheda del primo itinerario

Palazzo Otger

Palazzo Melis Ximenes (V. Lamarmora, 50/52)


Palazzo Falqui

Palazzo Falqui (già casa detta "di Vidal) (V. Lamarmora, 54/60 - V. Genovesi 41/51): Palazzo nobiliare sconosciuto ai più, mai compreso in nessuna pubblicazione sul Castello, ha invece una sua storia abbastanza documentata. Prospetta sulla via Lamarmora con una facciata piuttosto semplice, articolata su due piani alti e un mezzanello, con quattro aperture con balconi in ferro battuto, aggettanti quelli dei piani superiori, a filo della facciata quelli del mezzanello. La facciata sulla via Genovesi, con un piano in più per il dislivello tra le due strade, ugualmente semplice, è arricchita da balconcini in ferro battuto poggianti su mensole metalliche. Originariamente formato da due edifici stretti e lunghi, di origine medievale, uno dei quali crollò il 23 settembre del 1759, seppellendo sotto le sue rovine Donna Maria Grazia Falqui e la serva Vincenza, venne ricostruito nel 1772. Sulla via Genovesi vi erano alcune stanze precedentemente vendute all’avv. Giuseppe Carro o Carrus, estendentesi anche verso il vicino palazzo Delitala e poi inglobato nella sopraelevazione dei rispettivi palazzi. Le prime notizie storiche risalgono al 1734: con atto pubblico rogato Pau Satta del 21 ottobre di quell’anno il Protomedico generale Don Giovanni Salvatore Falqui acquistò una casa nel Castello di Cagliari, nella strada maggiore o diritta, confinante per davanti con le case del Marchese di Valdecalzana, detta strada in mezzo, di spalle a casa del Dott. Joseph Carrus, da un lato a casa che prima era del Nob. Don Joseph dela Matta e all’epoca del Collegio delle Scuole Pie, e dall’altro lato a casa del dello stesso Protomedico Falqui. Un altro documento del 1798 indica i confini dell’epoca: da una parte con la casa dei PP. Scolopi, come sopra, e dall’altra con casa che abita la Contessa di San Lorenzo. La casa del Marchese di Valdecalzana nel 1798 era della Dama Donna Francesca Sulis. È ben evidente dalla descrizione delle coerenze l’unione delle due case dei Falqui: la casa degli Scolopi è quella a Sud, conosciuta come Casa Ximenez e poi Melis, la casa a Nord, citata nel 1734 come già appartenente ai Falqui, nel 1798 non viene più indicata come confinante perché inglobata nel nuovo palazzo, e viene indicato come confinante l’edificio successivo, abitato dalla Contessa di S. Lorenzo, che è l’odierno palazzo Delitala; il prospiciente palazzo del marchese di Valdecalzana infine, è stato inglobato nel palazzo Sanna-Sulis.
I Falqui abitarono il palazzo fino all’estinzione di questo ramo della famiglia, nella prima metà dell’Ottocento. In particolare vi abitarono il Dott. Don Felice, avvocato, figlio del Protomedico e poi i suoi figli: al primo piano stavano i due canonici Don Francesco e Don Domenico, mentre le sorelle Donna Annica, nubile, e Donna Mariangela ved. del cav. Musso di Montesanto abitavano al piano di sopra con la figlia di quest’ultima Donna Margherita Musso ved. Marchesa Borro di S. Carlo. Dopo l’estinzione della famiglia il palazzo divenne proprietà di un sacerdote, tal Teologo Bardi Rettore prebendato di Guasila e successivamente del canonico della cattedrale di Cagliari Mons. Pietro Vargiu prebendato di Sanluri e Vicario Generale della diocesi, proprietario di un altro palazzo tra via Genovesi e via S. Giuseppe poi ereditato dalla famiglia Fois (vedi). Nel registro matricolare di metà ‘800 risulta intestato a Maria Vargiu ved. Medda. Questa famiglia Falqui, detta indifferentemente anche Falque e Falchi, originaria di Cuglieri, non è da confondere con quella, seppure imparentata, dei Baroni Falqui. Ottenne i privilegi di cavalierato e nobiltà nel 1700 e 1716 con il dott. Giovanni Salvatore, protomedico, mentre suo nipote il dott. Giovanni Andrea, pure medico e consigliere civico, figlio del fratello Sebastiano, ebbe il cavalierato nel 1743 in capo al padre già defunto come se vivesse. La discendenza del dott. Giovanni Andrea si estinse subito, mentre quella del dott. Giovanni Salvatore proseguì fin quasi alla fine dell’800. Donna Edoarda Falqui, altra figlia del dott. Felice, aveva sposato nel 1767 Don Giuseppe Sulis e da questo matrimonio era nata la figlia Luigia, sposata a Don Giuseppe Pes, dai quali a sua volta era nata, a Torino, nel 1791 Donna Francesca Pes-Sulis, che sposerà il barone Don Bernardino Falqui-Pes.

Palazzo Borro Zatrillas (Serra di S. Maria) (Via Lamarmora 59 - Vico I Lamarmora): Conosciuto anche come Cugia e, impropriamente, Carnicer, il palazzo sembrerebbe formato dall’unione di due distinte abitazioni: da un documento del 1645 indicante i confini della casa dirimpetto nel vico, viene detto che quest’ultima prospettava per davanti a casa del fu Gaspare Fortesa, posseduta dal dott. in diritto Antioco Cani Spada e parte a casa del fu Michele Masones, allora posseduta dal nob. Don Matteo Manconi, strada frammezzo.
All’estinzione dei Borro, passò per un breve periodo in eredità alla famiglia Buschetti, attraverso Donna Giuseppa Borro Servent, unica figlia superstite di Don Giacomo Borro Zatrillas primo marchese di San Carlo, vedova del cav. Carlo Buschetti. Nel 1794 il loro figlio Don Gaetano Buschetti, canonico della cattedrale e padrone della casa “ossia Palazzo del fu Marchese Borro e ora propria del canonico Buschetti” la affittò al canonico Don Luigi Touffani, dei conti di Nureci. Il can. Touffani dovette spendere di tasca propria per accomodare la casa una discreta somma. Tra l’altro, avendo la fobia dei ladri, fece porre ovunque inferriate, anche nella scala. Alla morte del Touffani, nel 1798, la casa rimase in abbandono, “piena di immondezza, con vetri rotti e tracce di galline dentro”. Ciononostante i suoi eredi chiesero il rimborso dei lavori eseguiti nella casa. Con la scusa che le chiavi erano state consegnate all’avvocato e non al can. Buschetti proprietario, questo pretese nuovamente il pagamento del fitto, e pur di non pagare il dovuto rimborso agli eredi Touffani si dichiarò intenzionato a far levare le migliorie apportate a spese degli stessi Touffani. Donna Giuseppa Borro ved. Buschetti pretendeva alla successione del marchesato di San Carlo in quanto figlia del primo marchese Giacomo e sorella dell’ultimo possessore, morto improle, e il cugino Don Giovanni Antonio Borro, figlio di un fratello minore del primo marchese Giacomo. Con una prima sentenza del dicembre 1802 il feudo venne riconosciuto a Donna Giuseppa Borro Buschetti, ma pochi anni dopo una nuova sentenza ribaltava la prima, e il feudo venne riconosciuto a Donna Imbenia Borro, figlia del predetto cugino Giovanni Antonio. In questo modo il palazzo tornò dai Buschetti ai Borro, e da questi al figlio di Donna Imbenia, Don Giovanni Antonio Paliacio marchese della Planargia (Il primogenito Gavino era morto giovane).
Intorno ai primi anni del ‘900 il palazzo venne acquistato dall’ing. Don Peppino Serra di Santa Maria, i cui discendenti lo abitarono fino al primo dopoguerra.
Palazzo Pes (Sanna Sulis) (V. Lamarmora 61/71 - Via Canelles, 46/48): Accanto al Palazzo Borro, salendo verso piazza Carlo Alberto, troviamo il bel palazzo noto come Pes o Sanna-Sulis, uno dei meglio conservati di Castello e ricco di notizie storiche. La facciata, piuttosto semplice, è caratterizzata da un ingresso decentrato, sulla destra dell’edifico, ornato da una cornice di conci in pietra; tutte le aperture del pianterreno, come dei mezzanelli, del primo, secondo e terzo piano, sono racchiuse da cornici semplici modanate, accompagnate da eleganti balconcini in ferro battuto, aggettanti quelli del piano nobile e del secondo piano, a filo della facciata quelli del terzo. Superato il portone d’ingresso, un breve androne conduce a un cortiletto, dal quale sale la scala scoperta che conduce al piano nobile. Al di sotto della scala una buia apertura conduce a un rifugio antiaereo e alle antiche stalle, lasciate integre.
Sul retro, lungo la via Canelles, la facciata riprende le caratteristiche di quella di via Lamarmora, presentando, sulla destra per chi guarda, un bell’ingresso ad arco, oggi purtroppo fortemente degradato, con una cornice strombata modanata, simile ad altre del quartiere, ma forse unica nel suo genere per la presenza, sopra il portone, di un ovale che un tempo conteneva un affresco, ora del tutto rovinato.
La storia di questo palazzo ci riporta fino agli anni ’70 del Settecento, quando era formato da due distinti edifici attigui, uno appartenente al famoso giurista Don Pietro Sanna Lecca, con ingresso dalla via Lamarmora, l’altro apparteneva al marchese di Valdecalzana, che risiedeva in Spagna: a questo palazzo si accedeva invece dall’ingresso sulla via Canelles. Poiché il palazzo del marchese di Valdecalzana minacciava rovina e la famiglia risiedeva a Madrid, la residenza venne messa all’asta e nel 1776 venne acquistata da Don Pietro Sanna Lecca, all’epoca reggente di toga del Supremo Consiglio di Sardegna a Torino e da sua moglie Donna Francesca Sulis. Poco tempo dopo il palazzo fu restaurato ed ampliato su progetto dell’ingegnere Carlo Emanuele Varin de la Marche; nel 1781 fu eseguito un ulteriore restauro dell'edificio, su progetto e direzione dell'architetto Carlo Maino e dell'ingegner Giacinto Marciotti, innalzando la parte della via Canelles di due piani, portandola a livello del resto della casa recentemente riedificata.
Non v’è certezza storica se il Sanna Lecca abbia mai effettivamente abitato in questo nuovo palazzo, né in quale piano: nel 1766, quando già ricopriva la carica di Avvocato Fiscale Regio Patrimoniale, fu infatti nominato dal re Carlo Emanuele III reggente di toga presso il Supremo Consiglio di Sardegna sedente in Torino. Pochi anni dopo ebbe dallo stesso sovrano l’incarico di raccogliere e pubblicare tutti gli editti e i pregoni emanati durante il governo sabaudo fino a quel momento. L’opera vide la luce in Cagliari nel 1775 sotto il regno di Vittorio Amedeo III col titolo “Editti, pregoni ed altri provvedimenti emanati pel Regno di Sardegna”. Già malato, il Sanna Lecca morì a Torino verso il 1780 e gli succedette nella carica di reggente il cognato Don Francesco Pes, marito di Donna Lucia Sulis sorella della moglie, che fu suo collaboratore nella raccolta degli Editti e Pregoni e già consigliere nello stesso Supremo consiglio e che, secondo il Manno, ne compilò l’introduzione.
Poiché non lasciarono discendenza diretta per la morte prematura dei loro figli – Luigi Stanislao era abate di S. Maria di Cea, Raffaele, sostituto Avvocato Fiscale Regio Patrimoniale non si sposò, un’altra figlia era monaca cappuccina – Donna Francesca nel 1790 promise i suoi beni alla nipote Donna Luigia Sulis Falqui (figlia del fratello Giuseppe) in occasione del suo matrimonio con Don Giuseppe Pes Sequi, giudice della reale udienza, cosa che puntualmente adempì facendo testamento nel 1797, lasciando dei cospicui legati in suffragio della propria anima ed alla Causa Pia e vincolando il resto dei suoi beni in fidecommesso a favore della nipote e dei suoi figli e discendenti in ordine di primogenitura. Alla morte di Donna Francesca, nel 1810, si aprì una lunga vertenza giudiziaria sulla validità dei due testamenti da lei lasciati, che si concluse nel 1828 con una transazione tra Donna Luigia Sulis, sua nipote ed erede testamentaria e i suoi figli, contro la Causapia della Diocesi di Cagliari. Con questa transazione veniva stabilito che gli eredi Pes avrebbero pagato alla Causapia la somma di £ sarde 18.500 da computarsi dal giorno della transazione, in rate di 1.850 £ per dieci anni. Con successiva transazione del 1836 gli eredi Pes cedettero alla Causa Pia una porzione del palazzo di Castello, consistente nel piano nobile, mezzanello , una bottega al pianterreno e due sottani, tutti aventi ingresso nella via Lamarmora, riservandosi la proprietà degli altri due piani aventi ingresso nella via Canelles.
Nell’atto di transazione sono indicate le case confinanti: la parte ceduta rifletteva in prospettiva a casa un tempo del Teologo Bardi Rettore prebendato di Guasila e posseduta allora dal canonico della primaziale Mons. Pietro Vargiu prebendato di Sanluri e Vicario Generale, nonché ad altra casa del Cav. Don Giovanni Antonio Delitala, strada mediante; da un lato a palazzo allora posseduto dal comm. Don Giuseppe Paderi giudice della Reale Udienza e dall’altro fianco a palazzo degli eredi della fu Donna Imbenia Borro Marchesa della Planargia e di Marrubiu. Gli altri piani con ingresso nella strada di Santa Caterina prospettavano invece a casa del Conte e presidente del tribunale della Reale Udienza Cav. Don Angelo Giua. Lo stesso documento ci riferisce ancora che nel 1836 il piano nobile risultava affittato al Cav. Don Salvator Angelo Satta Avvocato dei poveri, mentre la bottega era affittata al farmacista Pasquale Podda che vi abitava ed vi aveva la sua farmacia. I mezzanelli ed i due sottani erano anch’essi affittati rispettivamente all’usciere della Reale Udienza Giuseppe Antonio Figus, al sergente degli Invalidi Giovanni Battista Todde e al carrozziere Giovanni Antonio Lunis.
Qualche decennio dopo il piano nobile venne acquistato dal giudice De Raimondi mentre la bottega e i mezzanelli vennero acquistati dalla famiglia Lanero.
La parte di via Canelles venne divisa tra la stessa famiglia Lanero e gli eredi Pes-Sulis: dapprima fu la residenza del conte Pietro Pes, reggente la segreteria di Stato e successivamente passò ai figli del fratello conte Raffaele Pes che vi risedettero fino ai primi anni del ‘900, quando il conte Michele Pes ereditò dagli zii materni Corte e Castelli l’altro palazzo, già del Conte Viale, all’inizio della via Canelles e vi si trasferì.
Palazzo Pes di Villamarina (V. Lamarmora, 75): Il palazzo, caratterizzato da un bel portone bugnato, con arco a tutto sesto, permette di accedere ad un cortile piuttosto ampio. Ebbe diversi proprietari tra cui ricordiamo i Marchesi Pes di Villamarina. Nella seconda metà del XIX secolo ospitò il Circolo Filarmonico.

Palazzo Delitala di Manca (Via Lamarmora, 62/66): Scheda in corso di preparazione

Palazzo Falqui (Via Lamarmora): Il palazzo Falqui distrutto dai bombardamenti del 1943

Piazza Carlo Alberto:
Ex Palazzo di Città: vedi primo itinerario in Castello

Cattedrale: vedi primo itinerario in Castello

Piazza Palazzo (edifici esistenti fino ai primi del XX secolo): Scheda in corso di preparazione

Palazzo Martini (V. Martini): Scheda in corso di preparazione

Palazzo Amat (Piazzetta Mundula): Il Palazzo, costruito alla fine del XVII e posseduto dalla famiglia Amat (poi denominato Manca di San Placido per il matrimonio avvenuto nel 1857 tra Giacomo Manca Conte di San Placido e Marchese di Busachi e Maria Amat Amat, figlia del Marchese di San Filippo e Barone di Sorso Vincenzo Amat Amat), venne acquistato nel 1912 dall’Amministrazione Provinciale che nel 1925 riconfigurerà la facciata principale in maniera simile al palazzo regio. Il palazzo venne lesionato dai bombardamenti del 1943 e, seppur riparato nel 1946, presentò lesioni così profonde da rendere necessaria la sua demolizione nel 1972. Attualmente, al suo posto, sorge una piazzetta intitolata a Mercede Mundula.
Chiesa di Santa Lucia (V. Martini): La Chiesa venne edificata intorno al 1539, anno in cui il Viceré di Sardegna la donò con l’adiacente monastero ad un gruppo di monache clarisse inviate da Barcellona a Cagliari da papa Paolo III.
La Chiesa è priva di una vera facciata e si confonde con le costruzioni adiacenti risultando interna all’Asilo Umberto e Margherita. L’Asilo infatti è ospitato nel vecchio monastero delle Clarisse mentre la Chiesa, con un ingresso indipendente, presenta nella cappella sinistra le caratteristiche del gotico catalano e nella cappella destra i successivi interventi con inserimento di strutture barocche.
La navata è unica, divisa in due campate voltate a crociera con gemma pendula al centro. Il presbiterio è coperto da una volta stellare con nervature ogivali e gemme pendule ed è raccordato all’aula tramite un arco a sesto acuto che scarica su capitelli di foggia gotico-catalana.

Palazzo Onnis (V. Martini 18/26 - V. Canelles 93/91): Scheda in corso di preparazione

Piazza Mafalda: Foto della Piazzetta Mafalda prima che nel 1937 venissero demolite una fila di case

Piazza Indipendenza: Il nostro secondo itinerario termina in Piazza Indipendenza.
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Piazza Indipendenza