I vescovi della diocesi di Ales (1503-1866)

 

La Bolla pontificia emanata l’8 dicembre 1503 da Giulio II per definire una nuova struttura delle diocesi sarde dispose, tra l’altro, l’unione di quelle di Usellus e Terralba con sede in Ales. Si trattava di un provvedimento deciso poco prima di morire da Alessandro VI anche in conseguenza delle suppliche rivoltegli dai re di Spagna Ferdinando ed Isabella, in modo da consentire una migliore e più equa utilizzazione delle modeste rendite di cui godevano le diocesi isolane.
Al governo della nuova diocesi di Ales fu confermato Giovanni Sanna, già vescovo di Usellus dal 1493 e in precedenza vescovo di Castro. Uomo dotato di particolari qualità di comando e di azione, egli si occupò con impegno degli affari della diocesi e di molte altre questioni religiose del momento.
Incaricato di studiare il problema riguardante la riforma delle regole di alcuni ordini mendicanti e di svolgere compiti propri dell’Inquisizione, Giovanni Sanna operò incessantemente acquistando speciale considerazione presso la Sede Apostolica e meritando la nomina ad Arcivescovo di Sassari, disposta nel 1515 da Leone X. Il trasferimento all’archidiocesi turritana non comportò comunque l’immediato abbandono della diocesi di Ales, della quale Giovanni Sanna rimase amministratore apostolico fino al 1521, anno della sua morte.
Successore di Giovanni Sanna fu il fratello Andrea, canonico e suo attivissimo collaboratore. In possesso di rare qualità di cultura e capacità di governo, Andrea Sanna aveva rappresentato il suo vescovo alla V° sessione dei lavori del Concilio Lateranense, convocato da Leone X e apertosi il 6 febbraio del 1513, apportando un considerevole contributo su questioni di dottrina e di apostolato.
Dopo la morte di suo fratello, il vescovo Andrea ne prese il posto anche quale Inquisitore di Sardegna e svolse tale compito con tanto zelo al punto che il nome è rimasto legato a diversi episodi che videro il S.Officio in aperto contrasto con personaggi di primo piano della vita sarda, come l’avvocato fiscale regio Giovanni Antonio Arquer, padre di Sigismondo, e lo stesso viceré Don Antonio de Cardona.
Il caso più clamoroso fu certamente quello riguardante la moglie del viceré accusata di praticare arti magiche e la stregoneria. Si tratta di una pagina particolarmente interessante, anche se riguarda la diocesi di Ales soltanto per la persona del suo vescovo. Ricevuta l’accusa nei confronti della viceregina, mons. Andrea Sanna aprì subito un’inchiesta riservata sul caso e, forte di alcune testimonianze a carico, trasformò l’inchiesta in un formale procedimento inquisitorio; tuttavia, data la delicatezza della questione ed il rango delle persone coinvolte, trasmise tutto il carteggio al Supremo Consiglio dell’Inquisizione di Spagna perché si pronunciasse in merito.
Non fu difficile per il viceré mostrare che si era trattato di un’accusa montata ad arte, per danneggiarlo e farlo rimuovere dal posto, da alcuni bene individuati gruppi della nobiltà che non condividevano certe sue posizioni. Una volta ottenuto il pieno riconoscimento dell’innocenza di sua moglie, don Antonio de Cardona passò al contrattacco e scatenò una violenta campagna nei confronti del vescovo Sanna e dei suoi collaboratori dell’Inquisizione, che furono costretti a rendere noti i nomi di alcuni fra gli accusatori e ad aprire nei loro confronti un procedimento d’accusa per falsa testimonianza che si concluse, peraltro, con condanne assai lievi.
I contrasti tra il viceré de Cardona e mons. Andrea Sanna si trascinarono più o meno apertamente per alcuni anni, fino a quando cioè lo stesso Cardona non rientrò in patria a conclusione del suo mandato.
Quale membro di diritto dello Stamento Ecclesiastico, mons. Andrea Sanna partecipò attivamente ai lavori del Parlamento celebrato nell’Isola nel 1553-1554 sotto la presidenza del viceré Lorenzo Fernandez de Heredia, distinguendosi specialmente nella trattazione di questioni giuridico amministrative, tanto da esser chiamato a far parte dell’apposita commissione di esperti costituita in seno allo stesso Parlamento per la definizione dei conflitti di competenza.
Alcuni mesi dopo la conclusione dei lavori parlamentari, infine, mons. Sanna fu nominato, dietro esplicita segnalazione dell’Imperatore Carlo V, arcivescovo di Oristano nel corso del concistoro segreto tenuto a Roma il 3 agosto 1554 dal pontefice Giulio III.
Con il trasferimento di Andrea Sanna alla sede arborense, la diocesi di Ales rimase vacante per circa quattro anni fino alla nomina, cioè, del noto teologo Gerardo Dedoni che governò dal 1557 al 1562, anno della sua morte.
Di particolare rilievo furono la figura e l’opera del suo successore, Pietro Fragus o meglio Pedro de Frago y Garcès, originario di Uncastillo, piccolo centro della provincia aragonese di Saragozza. Nominato Vescovo di Ales il 6 novembre del 1562, mons. Fragus giunse in Sardegna preceduto da grandissima fama. Ben conosciuto ed apprezzato come teologo e poliglotta, aveva completato gli studi universitari a Parigi, trasferendosi poi nel 1530 a Huesca per insegnare in quella Università; nel 1542 fu chiamato a far parte del Consiglio del Regno di Aragona. La sua condizione di esperto in questioni teologiche e morali, gli consentì di partecipare alla prima e alla seconda sessione del Concilio di Trento (1545-47 e 1551-52), quale teologo del vescovo di Badajoz, ma particolarmente intensa e proficua, anche se breve, fu la sua partecipazione all’ultimo periodo del Concilio; egli, infatti, impegnato nelle questioni riguardanti i problemi della sua diocesi in Sardegna, di cui aveva appena preso possesso, poté giungere a Trento soltanto nel giugno del 1563. Nonostante ciò, i suoi interventi suscitarono unanimità di consensi assieme allo speciale elogio che gli giunse da parte dello stesso pontefice Pio IV (v. “La Sardegna nella storia dei Concili”, O. Alberti, 1964).
Rientrato nell’isola dopo la chiusura del Concilio, si dedicò con zelo all’applicazione dei decreti tridentini; trovano posto in questa sua azione i due Sinodi diocesani convocati in Ales, durante i quali presentò al clero gli aspetti più importanti dei problemi e delle risoluzioni adottate dal Concilio ed alle quali intendeva dare pratica attuazione nella diocesi.
Nominato vescovo di Alghero con provvedimento papale del 20 dicembre 1566, mons. Fragus fu sostituito nella diocesi di Ales da un altro religioso spagnolo: l’agostiniano Michele Marriquez, che governò fino al 1572, sostituito a sua volta da fra Giovanni Cannavera che rimase alla guida della diocesi per appena due anni.
Dopo il decesso di mons. Cannavera fu nominato il sassarese Giovanni Manca, esperto in questioni di diritto canonico, la cui attività fu ugualmente breve.
Per il successore di mons. Giovanni Manca esistono alcune discordanze fra gli studiosi. Mentre alcuni autori parlano dello spagnolo fra Lorenzo de Villavicencio dei Minori Osservanti, nominato vescovo nel 1576, di tale nomina non si ha notizia nel Codice Diplomatico delle relazioni tra la Santa Sede e la Sardegna. Comunque, l’attività del Villavicencio è abbondantemente documentata da una serie di interventi volti ad incoraggiare nella diocesi di Ales l’opera dei religiosi del suo Ordine.
Ceduta, infatti, alla Provincia francescana la chiesa di Santa Lucia in San Gavino Monreale, si adoperò per la fondazione di due conventi, quello di San Gavino (1580) e quello di Tuili nel 1582. La sua attività fu particolarmente apprezzata dalle popolazioni della diocesi ed ottenne anche il riconoscimento del pontefice per l’impegno dimostrato nell’apostolato. Considerato uomo di governo dotato di capacità amministrative non comuni, mons. Lorenzo de Villavicencio fu incaricato nel 1582 da Gregorio XIII, assieme all’arcivescovo di Cagliari, di effettuare un controllo delle rendite derivanti dalle sedi vescovili vacanti che non erano state impegnate nel restauro e nella manutenzione delle chiese o per l’acquisto di arredi sacri. L’intervento pontificio era stato sollecitato dal re Filippo II di Spagna in ossequio al Breve emanato da Pio V l’8 febbraio 1567, che prevedeva appunto l’utilizzazione di tali rendite per mantenere le chiese in condizioni di decoro.
L’accennata parziale contraddittorietà di alcune fonti non consente di sapere fino a quando il presule spagnolo sia rimasto a capo della diocesi, né i motivi della sua sostituzione. Risulta comunque con certezza che nel concistoro segreto del 23 gennaio 1585 fu nominato vescovo di Ales il carmelitano portoghese Pietro Clemens.
Durante i sette anni del suo governo, egli si adoperò con grande zelo ai problemi della cura delle anime, compiendo numerose visite pastorali come dimostrano i registri d’archivio e le relazioni delle visite.
In seguito alla sua morte, di cui non si conosce con precisione la data, Clemente VIII chiamo a succedergli nel 1597 il cagliaritano Antonio Surreddu, già canonico della cattedrale algherese, che governò la diocesi fino al 1606. Durante il suo vescovado avvenne in Mogoro il noto miracolo del SS. Sacramento, di cui ha diffusamente trattato il francescano P. Alfonso Casu.
Successore di Antonio Surreddu fu il monaco benedettino Lorenzo Nieto, maestro di Sacra Teologia, nominato vescovo di Ales da Paolo V durante il concistoro segrete del 17 aprile 1606.
Il nuovo vescovo giunse preceduto da fama di uomo di grande cultura e dotato di speciali capacità di governo. Abate del monastero di N.S. di Montserrat in Catalogna, lasciò la famosa comunità catalana per assumere appunto la guida della diocesi di Ales che tenne fino al suo trasferimento a quella di Alghero, disposto nel 1613. Vescovo di questa città fino al 1621, passò all’archidiocesi di Oristano dove morì nel 1625, dopo aver avuto la notizia del suo ulteriore trasferimento a quella ancora più importante di Cagliari.
Durante la sua permanenza ad Ales, e precisamente tra il 1610 e il 1612, venne in Sardegna il canonico Martin Carrillo, munito dei poteri di Visitatore Generale del regno conferitigli da Filippo III di Spagna. Dalla relazione del Carrillo si apprendono alcuni interessanti particolari sulla diocesi e sulle reali condizioni di vita nella stessa. Definito il vescovo Lorenzo Nieto “prelado muy religioso, gran theologo y predicador, muy experimentado en negocios”, il Carrillo affermò che la residenza vescovile era particolarmente disagevole in quanto Ales si trovava “en un desierto con sola la iglesia cathedral y algunos pocos canonigos”.
Didaco Borgia fu il minorita spagnolo che sostituì Lorenzo Nieto nella diocesi di Ales nel 21613 e i tre anni della sua permanenza (morì nel 1616) non registrano fatti o avvenimenti degni di rilievo.
Suo successore fu il teologo Gavino Manconi, chiamato al governo della diocesi mentre era parroco di Plaghe. Laureatosi a Pisa nel 1598, il Manconi si era subito distinto per la chiarezza delle concezioni teologiche e per il particolare zelo dimostrato nella cura delle anime. Nel concistoro segreto del 30 maggio 1616 il pontefice Paolo V accolse la segnalazione del suo nome pervenutagli da parte di Filippo III di Spagna in forza del privilegio dell’ “jus presentandi” per la nomina dei vescovi.. Durante il suo governo, durato fino al 1631, si occupò principalmente dei problemi di apostolato, conducendo un’assidua opera di controllo e di incoraggiamento di diverse attività, come dimostrano le relazioni sulle sue frequenti visite pastorali.
Alla sua morte, la diocesi rimase senza titolare fino al 1635, anno in cui vi fu trasferito il vescovo di Bosa Melchiorre Pirella, nuorese, che morì dopo appena tre anni di governo.
Il benedettino di Valencia, Michele Beltran, fu nominato Vescovo di Ales da Urbano VIII nel corso del concistoro segreto celebrato a Roma il 13 settembre del 1638. Giunto nella sua diocesi, il presule prese immediatamente conoscenza dei problemi religiosi, economici e sociali delle popolazioni dedicandovi particolare impegno. Compresa in pieno la grave questione dell’usura, largamente praticata nella diocesi, come del resto in tutta la Sardegna, cercò di porvi rimedio creando un istituto che può essere considerato senz’altro il precursore dei monti frumentari del Settecento.
Era possibile in tal modo far fronte alle esigenze dei contadini più poveri ai quali era data la possibilità di ottenere in prestito, a condizioni ragionevoli, il grano occorrente per la semina, specialmente nei periodi di scarso raccolto.
Michele Beltran morì nel 1640, ma non fu subito sostituito e quindi la sede vescovile rimase vacante fino al 1644, anno in cui, nel concistoro segreto del 18 aprile, Urbano VIII nominò vescovo di Ales don Antonio Manunta, il quale continuò l’azione sociale del suo predecessore specialmente per quanto riguardava i monti frumentari.
La lunga vita di Mons. Manunta, esclusivamente dedicata al governo della diocesi, consentì una considerevole azione di apostolato nel senso più ampio e non poche volte egli segnalò al pontefice i più gravi e seri problemi della comunità affidata alle sue cure. Spesso alle prese con beneficiati e canonici che sostenevano di essere costretti ad abbandonare le loro sedi nel periodo tra giugno e novembre a causa dei disagi derivanti dal clima troppo caldo e insalubre, mons. Manunta si rivolse nel 1651 al Papa Innocenzo X per chiedere che i canonicati della diocesi non fossero concessi a stranieri o a persone che non risultassero in grado di sopportare le avversità climatiche della sede durante tutto l’anno. In tale occasione sostenne con decisione che i benefici dovevano andare soltanto a coloro “qui oneri residentiae satisfacere valeant”.
Non si conosce la data di morte di mons. Manunta, ma è possibile che il pontefice Alessandro VII, nel nominare il suo successore nell’agosto del 1663, abbia tenuto presenti le particolari condizioni di disagio in cui si trovava la diocesi. Inviò infatti ad Ales Giovanni Battista Brunengo, persona di primo piano, referendario apostolico, dottore in diritto civile e canonico.
A conferma di questa ipotesi stanno alcuni elementi contenuti nel Breve di nomina che porta la data del 13 agosto 1663. Nel documento pontificio venivano chiaramente precisate al nuovo vescovo le più importanti incombenze cui attendere; tra queste, la puntuale applicazione ed osservanza dei decreti tridentini, la fondazione di un Seminario diocesano e l’istituzione di un “Monte di Pietà”. Come si vede, le preoccupazioni del pontefice erano di vario ordine: occorreva dare un maggiore impulso alla vita religiosa, all’apostolato, e quindi alla formazione di clero locale veramente preparato, come pure era necessario intervenire in campo sociale per evitare che gli squilibri economici, già abbastanza gravi, si approfondissero maggiormente.
Alcuni anni dopo il suo arrivo ad Ales, mons. Brunengo fu coinvolto nelle vicende che videro contrapposti alcuni dei più potenti gruppi della feudalità e della nobiltà isolana e che culminarono nel 1668 con gli omicidi del marchese di Laconi Don Agostino di Castelvì e del viceré di Sardegna Don Emanuele Gomez de los Cobos, marchese di Camarassa.
Le opposte e non sempre chiare passioni che avevano portato ai due omicidi provocarono un duro intervento repressivo da parte del governo, fermamente deciso a riportare alla normalità la difficile situazione sarda. Nel processo che seguì, i principali imputati furono mandati a morte, altri condannati a lunghe pene detentive ed altri ancora esiliati. Nel 1669 mons. Giovanni Battista Brunengo ricevette l’ordine di presentarsi a Corte per rispondere di alcuni addebiti circa la vicenda, ma appena arrivato in Spagna gli fu ingiunto di recarsi a Toledo, dove fu costretto ad attendere un anno prima di proseguire per Madrid.
Da quel momento le notizie sul Brunengo diventano scarse; non si conosce né l’esito del suo viaggio nella capitale spagnola, né si hanno elementi utili per giudicare sulla sua attività di governo della diocesi. Si sa soltanto che nel 1680, in seguito alla sua morte, il pontefice Innocenzo XI, durante il concistoro segreto del 15 luglio, chiamò a succedergli il vescovo di Bosa mons. Serafino Esquirro, che rimase in carica fino al 1684.
Sul periodo di governo di mons. Didaco Cugia, successore dell’Esquirro e nominato vescovo di Ales il 10 aprile 1684, non si hanno ugualmente notizie; risulta comunque che all’azione più squisitamente pastorale unì quella riguardante l’attività dei Monti Frumentari. Alla luce delle esperienze dei predecessori, egli infatti incoraggiò l’iniziativa, perfezionandola in modo da eliminare gli inconvenienti che erano stati riscontrati. Seguì con particolare interesse i lavori di ricostruzione dell’antica cattedrale, fatta edificare dalla marchesa donna Violante Carroz e che era stata pressoché distrutta da un incendio alla fine del secolo XVI. I lavori di ricostruzione furono affidati a Francesco Solari e Domenico Spotorno che realizzarono un’opera di particolare rilievo architettonico, specie per quanto riguarda il prospetto, inquadrato da due campanili e completato con originalità da un portico inquadrato da un’unica arcata.
Alla morte di mons. Cugia, avvenuta nel 1691, la Sede rimase vacante per alcuni anni e le funzioni vicarie nel governo della diocesi furono esercitate dal decano Francesco Masones Nin, cagliaritano, che fu poi nominato vescovo della stessa diocesi da Innocenzo XII il 2 gennaio 1693.
Acuto osservatore e profondo conoscitore dei problemi della diocesi in quanto vi faceva parte come canonico fin dal 1674, si dedicò con passione a quella che considerava l’opera più importante ed essenziale per la formazione del clero: la fondazione del Seminario.
Ripresa l’iniziativa tanto raccomandata dal Concilio di Trento e dai pontefici, mons. Masones Nin condusse una costante opera di sensibilizzazione presso il clero e i fedeli al fine di realizzare al più presto un Seminario vescovile veramente funzionante. La voce del vescovo non rimase inascoltata e tra le diverse offerte, quella più significativa e consistente venne dal beneficiato della cattedrale Diego Mannias, che fece donazione di alcune case nei pressi della stessa chiesa. Impegnando il clero in modo concreto e permanente, mons. Masones Nin dispose che alla dotazione finanziaria si dovesse contribuire con la tassa dell’uno per cento sui frutti dei benefici della diocesi, inclusa la mensa vescovile, e fu così possibile inaugurare il Seminario il 14 maggio del 1703.
L’anno successivo Francesco Masones Nin fu nominato arcivescovo di Oristano e, trasferitosi nella nuova sede, continuò l’opera di apostolato e di formazione del clero gettando le basi per la fondazione di un Seminario anche in quella archidiocesi.
In seguito al trasferimento ad Oristano di Francesco Masones Nin, venne nominato vescovo di Ales suo fratello Isidoro mediante provvedimento pontificio datato 15 dicembre 1704. Dotato di eccezionali qualità come uomo di governo e convinto sostenitore dei diritti della Chiesa, mantenne sempre una condotta di rigida osservanza delle norme canoniche e civili, rifiutando ogni compromesso e giungendo a scomunicare un inviato del viceré e della Reale Udienza (Don Giacomo Paderi di Oristano) in quanto aveva ritenuto il suo comportamento lesivo della dignità della Chiesa e dell’autorità del pontefice.
L’episodio si inserisce nel quadro dei contrasti legati alla controversia insorta tra i Savoia e la Santa Sede in seguito al passaggio dell’Isola al Piemonte. Richiamandosi all’antico privilegio di patronato goduto dai sovrani spagnoli, i Savoia ne chiesero la conferma in loro favore, ma la Santa Sede oppose un netto rifiuto in quanto, affermava, tale indulto doveva ritenersi decaduto in seguito alla perdita dell’Isola da parte della Spagna. Secondo la curia papale, la concessione del diritto di patronato era subordinata al riconoscimento da parte dei Savoia del diretto dominio della Chiesa sulla Sardegna, anche in forza di una lunga serie di diplomi imperiali che confermavano le pretese della Chiesa.
L’importanza che la questione rivestiva dal punto di vista politico, specie in considerazione dell’influenza del clero sul popolo, non sfuggì al governo piemontese che cercò alla fine di trovare, sia pure per vie diverse, un accordo.
Mentre si prolungavano a livello diplomatico gli scambi di note e le proposte di compromesso, una seria ripercussione del problema si aveva nelle singole diocesi isolane che, rimaste vacanti per il decesso o il trasferimento dei titolari, vennero affidate per parecchi anni ad amministratori apostolici o ai vicari generali.
La particolare sensibilità e le ferme convinzioni in materia di questioni giurisdizionali di mons. Isidoro Masones Nin, convinzioni che lo portarono a scontrarsi frequentemente con le autorità regie, finirono per procurargli una grave infermità mentale e il conseguente allontanamento dalla diocesi. Ricoverato a Genova, morì in quella città nel 1725.
Alla sua morte la controversia tra la Santa Sede ed i Savoia non era ancora risolta, quindi anche la diocesi di Ales rimase senza titolare fino a quando, raggiunto finalmente l’accordo annunciato solennemente da Benedetto XIII nel concistoro del 9 dicembre 1726, si ebbe la normalizzazione dei rapporti.
Nel concistoro segreto tenuto a Roma nel marzo dell’anno successivo, infatti, lo stesso pontefice nominò vescovo di Ales il canonico della cattedrale di Cagliari Salvatore Ruiu, dichiarando esplicitamente nel Breve che la nomina avveniva “ad presentationem Serenissimi Regis Sardiniae”.
Quello di mons. Ruiu fu uno dei più brevi governi della diocesi, in quanto il presule decedette, a meno di un anno dalla sua nomina, il 1° gennaio 1728.
Successore di mons. Ruiu fu il sassarese Giovanni Battista Sanna che, nominato con atto pontificio del 14 giugno 1728 in seguito ad analoga segnalazione del re di Sardegna, rimase in carica per circa dodici anni. Oltre che svolgere l’intensa attività pastorale, il nuovo vescovo volle abbellire e restaurare la cattedrale facendovi costruire, tra l’altro, la tomba dei vescovi nel presbiterio.
Personaggio di particolare importanza si rivelò il nuovo vescovo nominato da Clemente XII nel concistoro segreto del 26 settembre 1736. Mons. Antonio Giuseppe Carcassona Cau y Sanjust, commendatore di San Leonardo di Siete Fuentes dell’Ordine di Malta e fratello del marchese di San Saverio, trovò la diocesi in condizioni non certamente buone. Troppi i vescovi che da tempo si erano succeduti governando per periodi tanto brevi da non consentire neppure una sommaria presa di contatto e un’opportuna conoscenza della realtà della diocesi; inoltre, troppe erano state le indecisioni dovute ai contrasti con le autorità regie perché non si avessero preoccupanti conseguenze negative.
Consapevole della situazione, il nuovo vescovo intraprese con coraggio e decisione l’opera di riforma della curia; ridusse il numero di quanti vantavano esenzioni e privilegi, pretese dal clero un impegno particolare nella cura delle anime e assunse un fermo atteggiamento nei confronti dell’autorità regia in difesa dei suoi poteri giurisdizionali nell’ambito della diocesi. Ciò, naturalmente, portò ad uno scontro con il viceré Rivarolo, scontro che raggiunse punte di particolare gravità tanto da indurre i familiari del vescovo ad intervenire per consigliargli una certa cautela.
Forse in seguito a tali fatti maturò nel Carcassona il desiderio di ritirarsi e di entrare a fare parte della Compagnia di Gesù. La sua richiesta, però, non fu accolta dal Papa Benedetto XIV, il quale gli rispose ricordandogli, tra l’altro, che si opponevano all’accoglimento ben precise norme canoniche, assieme alla tradizione che in passato aveva avuto anche in Sardegna alcuni memorabili esempi.
In seguito al decesso del Carcassona, avvenuto il 1° marzo 1760, fu chiamato a sostituirlo nel governo della diocesi di Ales il sassarese Giuseppe Maria Pilo. Obbedendo ad un forte richiamo di vocazione religiosa, egli era entrato giovanissimo nella Compagnia di Gesù, ma dopo qualche anno ne era uscito per andare a far parte dell’Ordine carmelitano. Dotato di luminosa intelligenza e profonda cultura, Giuseppe Maria Pilo si distinse nelle diverse cariche attribuitegli all’interno dell’Ordine, fino a giungere a trentatré anni, con espressa dispensa pontificia, alla carica di Superiore dei Carmelitani di Sardegna. Nominato vescovo di Ales il 25 maggio 1761 da Clemente XIII, si dedicò subito ai problemi della sua diocesi, facendo restaurare e abbellire diverse chiese, costruirne altre, come ad esempio quella di Fluminimaggiore, e ampliare la sede estiva dell’episcopio in Villacidro.
Uomo dalla parola facile e convincente, scrisse numerose omelie di particolare efficacia, ma accanto a questa sua attività un posto speciale e di primo piano merita certamente la sua opera di apostolato sociale, nella quale è facile vedere interessanti motivi di modernità. Convinto dell’utilità della cultura, si adoperò per la sua diffusione, mentre aprì al pubblico le scuole del Seminario, accogliendovi soprattutto i poveri.
Sempre nell’intento di operare quegl’interventi di carattere sociale che riteneva assolutamente necessari, accanto alla promozione di una più sentita e cosciente religiosità, si adoperò per la valorizzazione e il potenziamento dei Monti Frumentari, per la difesa dei deboli e degli oppressi, per eliminare la piaga dell’usura e quel distacco non certamente cristiano tra ricchi e poveri, impegnando in tutto ciò il clero. Dimostrando coerenza con le sue parole e i suoi incitamenti al clero e ai fedeli della diocesi, si adoperò fattivamente per ridurre al limite delle possibilità le gravi conseguenze della siccità verificatisi nella primavera del 1779. Dopo aver fatto appello alla carità cristiana dei diocesani più ricchi, diede l’esempio del suo personale intervento vendendo o impegnando mobili e argenteria per contribuire all’acquisto di grano da distribuire ai poveri.
Sempre attento alle novità e a quanto avveniva fuori dell’Isola, mons. Pilo può essere certamente considerato un precorritore dei tempi, perché fin dal 1772 accolse e sostenne l’idea che incominciava a farsi strada in Europa e in Italia circa l’opportunità di costruire i cimiteri fuori degli abitati e dalle chiese. I motivi di igiene e le esigenze di culto che erano alla base del suo convincimento sono chiaramente esposti in una lettera conservata nell’Archivio di Stato di Torino, come pure appaiono in diverse pastorali e negli atti dei consigli diocesani da lui presieduti. La sua lunga e proficua opera di vescovo si concluse all’età di settant’anni quando la morte lo colse nel Palazzo vescovile di Villacidro il 1° gennaio 1786.
Rimasta per due anni sede vacante, la diocesi di Ales ebbe il suo nuovo vescovo, nominato nel 1788, nella persona di Michele Aymerich di Villamar, dei marchesi di Laconi. Discendente di antica famiglia di feudatari isolani, mons. Aymerich mostrò subito di interessarsi appieno dei problemi della sua diocesi, come pure di comprendere e avere a cura quelli più vasti e generali della Sardegna intera.
Conscio dell’importanza di rapporti ben definiti tra l’Isola e il Piemonte, assunse una posizione di particolare chiarezza quando nel 1793, eletto dallo Stamento ecclesiastico per presentare al Re assieme agli altri Bracci le richieste votate dal Parlamento, sostenne alcuni punti fermi in difesa dell’autonomia del regno. Parlando a nome dei tre Stamenti, egli sostenne infatti, tra l’altro, la necessità di riprendere le convocazioni decennali del Parlamento, di conferire esclusivamente ai sardi tutte le cariche pubbliche civili, militari e religiose dell’Isola, di costituire a Torino uno speciale ministero per gli affari sardi, di creare a Cagliari un Consiglio di Stato che collaborasse con il viceré nel disbrigo degli affari correnti, al fine di evitare che egli fosse continuamente costretto a rivolgersi a Torino per pareri ed istruzioni.
Con il decesso di mons. Aymerich, avvenuto nel 1806, la diocesi rimase vacante per un lungo periodo e si avviò verso momenti assai difficili. Mons. Giuseppe Stanislao Paradiso, di Cagliari, fu a capo della diocesi usellense per brevissimo tempo, dal 1819 al 1823, anno della sua morte, dopo essere stato vescovo di Ampurias e Tempio, mentre assai più lungo fu il periodo di governo del suo successore, il tonarese Antonio Raimondo Tore, consacrato vescovo il 25 maggio del 1828, che operò fino al 1840, anno in cui diventò arcivescovo di Cagliari.
L’acuirsi dei contrasti tra la Santa Sede e il Piemonte provocò serie difficoltà alla normale vita della diocesi. Impedimenti e difficoltà burocratiche sempre maggiori furono opposti dal governo per quanto riguardava la nomina dei vescovi e per il movimento del clero in genere, specie a partire dal 1850.
A tale momento corrispose il difficile periodo di governo che dovette affrontare mons. Pietro Vargiu, successore di mons. Tore. Eletto vescovo nel 1843, si trovò ben presto a dover affrontare le conseguenze derivanti dall’atteggiamento del governo piemontese che mirava a ridurre sempre più le prerogative e i benefici ecclesiastici. Ostacolata, tanto da risultare impossibile, la nomina di nuovi vescovi e di nuovi canonici, la crisi delle diocesi isolane divenne veramente grave. E quando il 3 agosto 1866, mons. Vargiu morì, in tutta la Sardegna rimase un solo vescovo, mons. Giovanni Battista Montixi, nella diocesi di Iglesias. Per le altre si era aperto un nuovo, lungo e precario periodo di sede vacante, sotto la reggenza di vicari generali.