L’Ordinamento Costituzionale - Amministrativo della Sardegna alla fine del ‘300

 

L’ingresso della Sardegna nella Corona d’Aragona:

E’ noto che la Sardegna, acquisita definitivamente dagli Aragonesi dopo il 1478, entrò formalmente a far parte della Corona d’Aragona nel 1297, con l’investitura fattane a Giacomo II da Bonifacio VIII.
La Corona d’Aragona era un’unione personale di stati, sorta nel 1162 allorché i conti di Barcellona, antichi feudatari dell’impero carolingio, nella persona di Alfonso II, divennero re di Aragona. A questo nucleo di base, Catalogna-Aragona, si aggiunsero Valenza, Maiorca ed altri territori, e condizione comune del loro ingresso nell’Unione fu la sottomissione alla sovranità di uno stesso principe, ma non la perdita delle strutture politico-costituzionali, che continuarono ad essere organizzate secondo l’ordinamento proprio di ciascuno.
Anche la Sardegna, quindi, tardivo acquisto della Corona, entrò nell’Unione col teorico diritto a mantenere le proprie leggi e le proprie istituzioni, diritto che, di fatto, fu ripetutamente violato. A ciò contribuì senz’altro la guerra di resistenza, che impedì l’instaurarsi di normali rapporti tra il principe ed i nuovi sudditi, e che guadagnò a questi ultimi l’appellativo di sardi nequissimi; ed anche la frammentarietà del mondo istituzionale sardo prearagonese, che si presentava in fase di transizione, non essendo ancora interamente uscito dalle strutture giudicali alto-medievali e non avendo ancora interamente assorbito quelle basso-medievali della società comunale italiana. Ma soprattutto determinante fu la politica accentratrice dei principi di Aragona che, in presenza di una situazione giuridica non consolidata e loro non conveniente, ebbero facile gioco nell’ignorarla per calare la Sardegna in quelle rigide strutture continentali più vicine ai loro indirizzi politici.

 

L’ordinamento sardo-aragonese: nozioni generali:

Le istituzioni sardo-aragonesi presentano delle sorprendenti costanti nel tempo, assai poco note, in virtù delle quali si può affermare che gli ordinamenti trecenteschi di Alfonso il Benigno e di Pietro IV sono la struttura base di quello sardo spagnolo e, in parte, del sardo piemontese, e che tali ordinamenti, inoltre, sono la chiave per intendere le istituzioni pubbliche dell’isola sino al 1847.
Ma, se ciò è vero, non deve condurre alla conclusione superficiale di un totale immobilismo degli ordinamenti sardi nel ‘300, del tutto contraria alla realtà.
Tra le istituzioni sardo-aragonesi degli inizi e della fine del ‘300 vi sono differenze, agevolmente rilevabili nel confronto, che non possono essere ignorate. Pertanto, questa disamina, in armonia col tema trattato, riguarderà solo l’ultimo quarto del secolo.
Sotto il profilo costituzionale, l’ordinamento della Sardegna aragonesi era quello di un regno autonomo, ma superiorem recognescens, che aveva come trait-d’union con la Corona la persona del sovrano e come unico elemento di soggezione l’ordinamento superiore della corte. Nel momento storico esaminato l’ordinamento della corte era quello dettato da Pietro IV nelle Ordenacions del 1344, ancora ispirato alla vecchia confusione alto-medievale tra amministrazione pubblica e privata, ed in cui l’amministrazione centrale dello stato era tutt’uno con quella della casa del principe.
Questo stesso principio informò la nuova organizzazione data alla Sardegna che, giova ripeterlo, mutuava, per certo verso accentuandole, le linee costitutive del regnum catalano.

 

L’amministrazione regia:

A volerla ridurre in schema, l’organizzazione della Sardegna aragonesi si reggeva su quattro cardini: l’amministrazione regia, l’amministrazione municipale, l’amministrazione feudale ed il parlamento, intersecantisi reciprocamente nelle funzioni e competenze. La mentalità medievale, come tendeva a confondere le nozioni di amministrazione pubblica e privata, non faceva distinzione tra attività esecutiva, giudiziaria e finanziaria, ma le unificava nell’idea di “amministrazione”, che era il fondamento dell’idea di stato, pur affidandone l’esercizio ad organi differenti.

Dei quattro cardini, l’amministrazione regia era la più vicina al sovrano perché costituita dai suoi diretti collaboratori ed ausiliari, detti “ufficiali”, legati da un rapporto di rappresentanza di tipo privatistico, che in suo nome e per suo conto esercitavano le funzioni di governo, patrimoniali, giudiziarie e militari, a lui spettanti come caput del corpus statuale.
Nell’isola, l’amministrazione regia era a struttura piramidale, con vertice nei due governatori del Capo di Cagliari e di Gallura e del Capo di Logudoro, che si spartivano il governo di essa e le supreme funzioni giudiziarie e militari.
L’assoggettamento al regime governatoriale, e cioè ad un regime accentrato dove un agente del re dirigeva la politica del regno, è un fatto nuovo per le strutture isolane ed è la notazione caratterizzante l’amministrazione regia in Sardegna, non solo del periodo aragonese - spagnolo, ma anche del periodo piemontese. Trasformata la governazione in viceregno nel 1417, questo regime governerà, infatti, l’isola sino alla fusione del 1847.
A fianco dei governatori, nei due Capi, erano gli amministratori che amministravano il patrimonio regio nell’isola, in cui erano compresi i beni e i diritti privati del re ed i beni e i diritti fiscali, in una commistione derivata dal prevalere nell’alto medioevo del principio barbarico della patrimonialità dello stato sul concetto pubblico dello stato, proprio del diritto romano.
Nel 1391 gli amministratori dei Capi furono sostituiti dal bailo generale di Sardegna, ufficiale dotato di poteri territoriali e funzionali più ampi, ma di effimera durata.
Al di sotto dei governatori e del bailo, si snodava la numerosa e complessa gerarchia degli ufficiali minori che, secondo la funzione prevalente, si possono distinguere in giudiziari (vicario, podestà, avvocato e procuratore fiscale, ecc.), patrimoniali (camerlengo, doganiere, portolano, saliniere, ecc.) e militari (capitano, castellano), tutti con competenze territoriali limitate ad una città (ad es. Cagliari) o ad un territorio (ad es. Gallura).
I titolari degli uffici regi di Sardegna, nel sec. XIV, al di fuori di qualche insignificante eccezione, furono scelti tra i sudditi dei regna continentali della Corona e, in particolare dell’Aragona, della Catalogna e di Maiorca.

 

L’amministrazione municipale:

Strettamente collegata con la regia, è l’amministrazione municipale.
In Sardegna, sin dalla fine del sec. XIII, si era costituita una rete di municipi autonomi plasmati sui modelli del nord e centro Italia, che concedevano buono spazio alle autonomie locali. Sotto questo profilo, quindi, gli aragonesi non crearono delle strutture nuove, ma le modificazioni, apportate a quelle preesistenti, ebbero ugualmente un forte valore innovativo.
Il tipo di municipio portato in Sardegna fu quello catalano, definito dalla dottrina rudimentario in contrapposizione a quello perfeito dell’Aragona. La nota distintiva essenziale tra i due ordinamenti comunali viene identificata dalla dottrina nel potere di amministrazione della giustizia, esercitato dal re, fonte stessa della giustizia, nel rudimentario e dalla comunità municipale nel perfeito. Prototipo di municipio rudimentario è Barcellona, su cui viene ricalcata l’amministrazione di Cagliari, articolata in un corpo consiliare di 50 giurati, a capo dei quali erano 5 consiglieri, di emanazione cittadina più o meno diretta, ed un piccolo gruppo di impiegati.
La funzione giurisdizionale veniva esercitata da un ufficiale del re, il vicario, che interveniva in larga misura anche nell’attività amministrativa, in senso stretto, e militare degli organi collegiali cittadini, influenzandola profondamente.
La struttura barcellonese influenzò gli ordinamenti di tutti i municipi autonomi sardi, Sassari ed Iglesias inclusi. Degli antichi reggimenti italiani rimase spesso la sola terminologia (giudice, podestà, capitano) a celare malamente una realtà che meglio si identificava con le denominazioni catalane di vicario e di bailo.
Nel 1331 furono esplicitamente estesi gli ordinamenti di Barcellona a Sassari che però – nonostante il diploma del 7 maggio 1323 con cui Giacomo II aveva assicurato il rispetto della sua costituzione – aveva visto il suo podestà trasformato anche nominalmente in un vero e proprio vicario da quello stesso anno. In seguito, avvenne anche la modifica strutturale del corpo consiliare ad instar Barchinonae, ma, se anche sopravvisse parte dell’ordinamento preesistente, l’ingerenza regia e la conseguente diminuzione dell’autonomia comunale fu determinata dalla presenza del rappresentante del sovrano nella persona del podestà-vicario.
Analoga situazione sostanziale si ebbe ad Iglesias, dove il comune conservò in parte le forme amministrative sancite dal Breve pisano ma dove, in pari tempo, furono strumentalizzate le cariche di capitano e di giudice alla penetrazione regia nell’amministrazione cittadina.
Anche ad Iglesias il processo avvenne con la trasformazione del capitano in un ufficiale regio, le cui linee essenziali ripetevano quelle del vicario.
In conclusione, le strutture del comune cittadino della Catalogna e, in particolare, l’ufficio del vicario, vero ojo del rey sul territorio, furono lo strumento tecnico attraverso il quale i sovrani aragonesi precostituirono un argine all’eventuale espansione dell’autonomia municipale sarda e si assicurarono il controllo delle amministrazioni comunali che, per questo verso, rientrarono nell’orbita della loro amministrazione diretta.
In armonia con questo indirizzo, i titolari degli uffici regi, costituiti presso i municipi sardi, furono per lo più di nazionalità iberica.

 

L’amministrazione feudale:

Per quanto concerne la terza forma di amministrazione, è noto che in Sardegna le prime concessioni aragonesi di feudi furono coeve alle lotte con Pisa e che, in breve volgere di anni, ben pochi erano i territori non sottoposti ai baroni iberici, al di fuori delle città e dei loro distretti. Le concessioni del sec. XIV furono accordate secondo le regole del mos Italiae o Sardiniae, che limitava i poteri giurisdizionali dei feudatari al misto impero, cioè alla giustizia civile e alla criminale bassa.
Nel sec. XV queste concessioni furono trasformate in allodi di tipo catalano, nei quali la giurisdizione era estesa al mero impero, comprendente anche la giustizia criminale alta, e talvolta persino ai giudizi di secondo grado. A queste condizioni furono concesse da allora anche le nuove infeudazioni.
Che il feudo sia stato, o meno, introdotto ex-novo dagli aragonesi nell’isola è discusso. Ad ogni modo, può essere utile esporre alcuni personali convincimenti.
Mi pare, infatti, non revocabile in dubbio che la Sardegna prearagonese abbia conosciuto e praticato il beneficio, l’accomendazione e l’immunità, elementi essenziali all’istituto feudale, ma ritengo altrettanto verosimile che, in ogni caso, non abbia avuto un’organizzazione capillare e quasi burocratizzata, come quella attuata dai sovrani aragonesi. Almeno in questo secondo senso, mi pare possa accettarsi che il feudo era una novità per l’Isola.
A favore di questa opinione è anche il fatto che nelle zone della Sardegna influenzate da Genova e da Pisa (e che erano la maggioranza) erano fortemente penetrati gli elementi del diritto pubblico comunale che, seppure non escludevano il rapporto feudale, non lo ponevano a base del loro sistema giuridico. Appare, quindi, antistorico ed illogico vedere il processo di feudalizzazione della Sardegna agli inizi del ‘300 in fase di espansione, piuttosto che di regresso o perlomeno di stasi, come ritengo più probabile.
Quanto alla ratio dell’introduzione – o del mantenimento – dell’amministrazione feudale in Sardegna per parte aragonesi, non è chi non veda che l’istituto era in contrasto con le tendenze accentratrici dei re d’Aragona. E’ universalmente nota, infatti, la funzione schermante del feudo nei rapporti tra sovrano e sudditi, giustamente paragonata dal von Below al fenomeno della rifrazione della luce. Il feudo, in sostanza, era una forza centrifuga di quei poteri di governo e di amministrazione che i principi aragonesi andavano cercando di coagulare in sé.
Ma in questo caso chi agì fu il motivo finanziario, prevalendo sulla ragione politica pura.
La Corona d’Aragona era da tempo impegnata in una tenace e costosa politica di espansione, rivolta sia al Mediterraneo che ai territori limitrofi di terraferma, dietro la spinta delle contrapposte esigenze della Catalogna e dell’Aragona. Le risorse del regio fisco non erano sufficienti a finanziarla, per cui era giocoforza ricorrere a prestiti e contributi, anche di privati, che venivano compensati con concessioni feudali, pubblici uffici e privilegi doganali.
Le prime infeudazioni sarde, tutte concesse ad iberici come le successive, e le stesse trasformazioni in allodi rientrano in questo quadro e vanno valutate, più come un espediente per tacitare i finanziatori delle spedizioni di conquista dell’isola, che come una scelta strutturale. Per attenuare gli svantaggi che l’espediente comportava, con processo inverso a quello attuato nell’ordinamento municipale, i sovrani aragonesi ripudiarono la forma dell’allodio, allora fiorente nella Corona, e privilegiarono quella loca del mos Italiae, perché limitativa dei poteri baronali.
L’adozione del mos Italiae si presta ad essere interpretata anche diversamente, e cioè nel senso che il re abbia preferito le forme locali a quelle iberiche per non turbare lo status quo. Non ho elementi per escludere che tale preoccupazione sia stata una componente delle intenzioni sovrane, ma in ogni caso non la ritengo esclusiva né determinante.
Troppe volte e troppo profondamente i re di Aragona incisero sulle strutture sarde preesistenti, svuotandole dei loro contenuti, per ritenere ostacolo sufficiente all’attuazione della loro politica l’esistenza di una forma locale di feudo diversa da quella iberica. Tutt’al più con la recezione del mos Sardiniae, essi conseguirono contemporaneamente due risultati: diminuire a proprio utile gli svantaggi dell’istituto feudale ed accattivarsi la popolazione sarda, ma senza avere particolarmente di mira questo secondo fine.

 

Il parlamento:

La disamina dei tre ordini amministrativi (regio, municipale e feudale) esaurisce di fatto l’organizzazione della Sardegna aragonesi alla fine del ‘300. Ma non si può ignorare che, almeno dal punto di vista formale, esisteva nell’isola l’istituto parlamentare creato da Pietro IV nel 1355, nel più vasto quadro di iniziative prese da quel sovrano durante il lungo soggiorno a Cagliari ed intese a riorganizzare l’isola di fronte alla decisa ed aperta ostilità di Mariano d’Arborea.
La ribellione di quel giudice aveva spezzato in due i territori aragonesi in Sardegna ed il giudicato di Arborea si era posto tra di essi come un cuneo, rendendo problematici i rapporti tra i due tronconi, meridionale e settentrionale.
Pietro IV, che fu uno dei più avveduti e capaci sovrani aragonesi, reagì alla situazione, sia fortificando i punti chiave della difesa (Sassari, Alghero, Osilo, Casteldoria, Sanluri e i castelli dell’interno), sia con riforme amministrative aderenti al nuovo stato di fatto. Da allora che la Sardegna aragonese non venne più considerata sotto il profilo amministrativo un unico territorio, ma fu divisa in due zone, una al nord e una a sud-est, ed a ciascuna venne data la struttura che abbiamo esaminato e che si imperniava sui governatori e gli amministratori dei due Capi, del Logudoro e di Cagliari e di Gallura.
Nel piano di riforme suddetto rientrò l’istituzione delle Cortes, o Parlamento, di Sardegna.
La creazione dell’istituto non fu chiesta dalle forze sociali operanti nell’isola, al di fuori della monarchia: i feudatari, infatti, godevano di una libertà illimitata nella situazione di disordine creata dall’opposizione dei Doria e di Mariano d’Arborea, per cui non avvertivano il bisogno di un organismo per mezzo del quale far sentire il proprio peso e far valere i propri diritti; le città, spopolate, e le ville indebolite, non erano in grado, a loro volta, di coalizzarsi per reclamare una più diretta partecipazione al governo dell’isola. Il parlamento fu voluto e creato dal re.
Ancora una volta, per modellare le istituzioni sarde, i re d’Aragona trassero ispirazione dalla Catalogna e le Cortes di Sardegna nacquero in tutto simili alle catalane, e cioè come assemblea rappresentativa dei ceti dominanti del regno, suddivisi nei tre bracci, o stamenti, della feudalità, del clero e delle classi cittadine.
Le Cortes esercitavano principalmente funzioni legislative, nelle due forme delle costituzioni e dei capitoli di corte, e finanziarie, con l’approvazione del donativo al re.
Per valutare meglio il significato di questa scelta, si deve tener presente la differente struttura delle Cortes dell’Aragona, le quali, non essendo i sovrani riusciti a tenere a freno e ad assoggettare la potenza dei baroni del regno, avevano quattro bracci, di cui due feudali, uno dei nobili ed uno dei cavalieri.
Le Cortes dell’Aragona, grazie a questa particolare configurazione, furono molto più forti che negli altri regni, e solo Pietro IV ne iniziò il ridimensionamento abolendo nel 1348 i larghi Privilegios de la Union, strappati ad Alfonso III nel 1287.
Quali ragioni determinarono Pietro IV a convocare le Cortes in Sardegna nel 1355? Esclusa la pressione delle forze sociali e la necessità, o la opportunità, di rinverdire o mantenere tradizioni locali, concordo pienamente con il Solmi nell’escludere anche per il re la necessità di creare le Cortes al fine di avere un contrappeso alle classi feudali, nelle classi cittadine, o di chiamare i sudditi a nuove contribuzioni, sconsigliando entrambe le cose le condizioni politiche ed economiche dell’isola.
Il parlamento di Sardegna, come dice il Solmi, “nacque per sola volontà regia” e “servì a scopi precisamente politici”. Ad esso “non fu estraneo il desiderio di crescere decoro all’autorità regia” e di adoperarlo come “un mezzo per conoscere i bisogni del governo e dei governati, per raffermare il vincolo di fedeltà dei sudditi e promuovere le più urgenti riforme dello Stato.” Esso fu quindi una determinazione politica autoritaria che, nel momento, non diede gran frutto, tanto da potersi affermare che “la storia parlamentare della Sardegna si apre veramente dal 1421”, anno in cui fu convocato da Alfonso V un nuovo parlamento nell’isola.

 

Conclusioni:

Con la penetrazione aragonese, la Sardegna ebbe un assetto costituzionale amministrativo assai differente dal precedente, ma solo nella sostanza. Formalmente, infatti, le modifiche apportate furono poco appariscenti: l’ordinamento prearagonese non fu abolito né rovesciato, ma svuotato delle sue connotazioni essenziali, mentre ne vennero lasciate intatte l’apparenza, la terminologia e le forme.
Le modifiche così realizzate valsero ad assimilare le vecchie istituzioni sarde a quelle catalane, ed anche le strutture introdotte ex novo furono tratte, come visto, dagli ordinamenti della Catalogna.
Ritenere che ciò sia avvenuto casualmente e inorganicamente sarebbe un errore. La trasformazione degli ordinamenti sardi è frutto di una precisa direttiva politica, come deliberata è la scelta del tipo di strutture a cui essi devono essere assimilati.
L’insieme delle istituzioni sardo aragonesi rivela l’organico disegno di realizzare un regime accentrato, tendente a privilegiare la monarchia nei confronti delle altre forze sociali. In sostanza, i sovrani aragonesi e Pietro IV più di ogni altro, introdotta l’isola nella loro sfera di potere, adottarono per lei, nel vasto e serio panorama istituzionale della Corona, quell’ordinamento che meglio si adattava ad una monarchia avviata all’assolutismo.
Sottolineo, a conclusione, che quando contrapponiamo, in questo periodo storico, la monarchia ad altre forze sociali, parliamo sempre di iberici. Per governare le zone della Sardegna, di cui erano riusciti ad acquisire il possesso, i sovrani aragonesi si servirono di sudditi iberici e non di sardi, e di conseguenza, quando si parla di poteri feudali, parlamentari e municipali, si deve sottintendere che i loro titolari non erano sardi, ma aragonesi, catalani, maiorchini, etc…
La lotta per l’esercizio del potere statuale che si svolse nei territori aragonesi della Sardegna del secolo XIV, contemporaneamente alla lotta tra re e giudici per il predominio politico, era quindi estranea al popolo sardo, escluso dal grande gioco, relegato in posizione subalterna a fare da spettatore ad una contesa il cui esito l’avrebbe visto in ogni caso, e una volta di più, in posizione di sfruttato.