Della nobiltà in Sardegna

LA NOBILTÀ NEL PERIODO ARAGONESE
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Il 12 giugno 1323 una imponente flotta, costituita da quaranta galere da guerra e da oltre duecento navi da trasporto, giungeva, nelle coste del Sulcis, in una località allora chiamata Canyelles e, probabilmente, individuabile nella odierna Porto Vesme, conducendo l'armata che il re Giacomo II d'Aragona mandava a prendere possesso della Sardegna. A bordo della Santa Eulalia, una tarida che stazzava 3000 salme, aveva viaggiato l'Infante Alfonso che il re, suo padre, mise a capo dell'armata. Egli si portava dietro la sua corte e quella della moglie, l'Infanta Teresa d'Entença, che si era fatta accompagnare dalle sue dame.
I militari che giungevano in Sardegna non erano inquadrati in un esercito regolare e non percepivano il soldo, ma costituivano una armata medioevale di tipo feudale ove ciascuno seguiva ed era fedele non al re ma al proprio barone che, a sua volta aveva l'obbligo di assistere militarmente il suo Signore, il re. Tale obbligo, se da un lato era proporzionale alla grandezza del feudo, dall'altro era condizionato da una durata limitata nel tempo. Di solito le guerre cui queste milizie partecipavano, duravano da due a tre mesi, d'estate: d'inverno la guerra si interrompeva e ciascuno tornava alle proprie occupazioni.
Questo particolare tipo di contratto, che permetteva al sovrano di non avere un esercito permanente, i cui costi non si sarebbe potuto permettere, portava degli inconvenienti: non era infatti infrequente che un barone, stanco di una guerra che andava per le lunghe, lasciasse il campo con le sua compagnia, abbandonando il re al suo destino.
A fianco di queste truppe, che marciavano per "banderas" e si radunavano sotto il vessillo del proprio signore, Giacomo il Giusto aveva posto compagnie mercenarie le quali dipendevano direttamente dai loro capi che avevano giurato al re fedeltà per tutta la durata dell'arruolamento. Per la conquista della Sardegna il re d'Aragona aveva arruolato compagnie di Almogavari, valenti cavalieri armati alla ginetta, vale a dire senza armature pesanti di difesa, costituite da soldati di ventura di varie nazionalità, e persino di differenti religioni. Essi offrivano al re d'Aragona quella indipendenza dai propri feudatari necessaria in una avventura come quella che l'Infante Alfonso stava per affrontare, ma costavano denari che era stato necessario prendere a prestito da banchieri, specie genovesi, i quali se ne attendevano un profitto.
Con questo esercito Alfonso iniziò la presa della Sardegna dalla città di Villa di Chiesa, odierna Iglesias, che tuttavia resistette in maniera sorprendente ben oltre i termini dei contratti di arruolamento e delle fidanze dei feudatari. E mentre l'armata assediava Villa di Chiesa, cominciarono, alla fine dell'estate, le defezioni.
La prima, e la più grave, fu quella della squadra navale maiorchina, che il re di Maiorca aveva affidato all'ammiraglio Ugone de Totzo, il quale, buscatasi la malaria, ai primi di settembre, scaduto il termine del contratto, lasciò il porto di Canyelles con tutte le sue navi. I patroni delle fuste, cioè delle navi da trasporto, avendo anch'essi visto scadere il termine del contratto senza che l'Infante annunciasse di potersi permettere un secondo contratto, profittando della scorta maiorchina, avevano seguito le navi dell'ammiraglio de Totzo, abbandonando la Sardegna.
Mentre le venti galere valenciane da guerre, con il loro ammiraglio, en Francisc Carròç, rimasto fedele all'Infante, pattugliavano l'isola a levante, la Repubblica di Pisa inviò una flotta al comando dell'ammiraglio Francesco Zaccio, che saccheggiò Canyelles, distruggendo i legni e le provviste che vi erano rimasti. L'esercito dell'Infante Alfonso si trovò a mal partito, falcidiato, com'era, dalla malaria e dalle defezioni che ne assottigliavano le fila. La partita, appena cominciata, sembrava già perduta.
I signori feudali, stanchi di una guerra che, prevista di pochi mesi, si prolungava in pessime condizioni, accampavano pretesti per tornare a casa e poiché il Principe non li accettava, presero a partire senza permesso. Tra i primi ad abbandonare l'Infante furono Joffré Gilaberto de Cruïlles e Bort de Jossa, contro i quali l'Infante Alfonso chiese al re una sentenza di fellonia.
Come è noto, la guerra durò dal 1323 al 1326 e, alla fine, gli Aragonesi rimasero padroni del campo ma pieni di debiti e costretti in una situazione che richiedeva ancora molto lavoro. Terminata la guerra, l'armata si sciolse e Giacomo d'Aragona si accorse che per tenere ciò che aveva conquistato, data la rissossità degli alleati che lo avevano aiutato, e la tendenza degli indigeni alla ribellione, avrebbe avuto bisogno di un vasto esercito di occupazione. Il che, per i tempi, era impensabile ed eccessivamente oneroso. L'unico modo che gli rimase fu di trattenere i militari ricorrendo alle concessione feudali "more italico".
La sua strategia fu di creare, attorno ai suoi alleati, una rete di feudi in mano ai valorosi suoi combattenti, originari dalla Catalogna, Aragona, Valencia e Maiorca, distribuiti per tutta l'isola a macchia di leopardo in modo da tenere imbrigliati gli isolani. I primi feudi vennero concessi, già nel 1324, a Bernardo de Boixadors, che era stato precettore dell'Infante Alfonso, seguendolo poi in Sardegna come consigliere. Il de Boixadors ebbe la Signoria di Nora, Chia e Saliu.
Guglielmo Oulemar, uno degli artefici della resa di Villa di Chiesa e consigliere di Alfonso, ebbe feudi nel Campidano, a Mara e a Calagonis. Guglielmo Des Llors, un avventuriero al servizio del re d'Aragona ebbe la villa di Donori, Bernat de Ballester quella di Samatzay, Bernat de Cespujades Villacidro e Serramanna e Joffré Gilaberto de Cruïlles, che Giacomo il Giusto aveva perdonato e rispedito in Sardegna, divenne signore di Donigala nella Curatoria di Seurgus.
Anche i figli dell'ammiraglio Carròç ottennero compensi nell'isola: Francesco il giovane ebbe possedimenti nell'Alta Trexenta e a Mandas, Berengario a Settimo e Nicola nella Barbagia di Seulo. Teresa Gombau, moglie di Berengario Carròç, che per essere sorellastra dell'Infante Teresa d'Entença, aveva una certa influenza a corte, ottenne i feudi di Palma, Sestu e Selargiu, che poi passarono al marito.
Tra il 1324 e il 1326 vennero fatte in Sardegna 58 concessioni feudali . I nuovi feudatari, tenuti a versare il censo, furono anche impegnati a fornire al Sovrano soldati e cavalli armati in proporzione alla grandezza della concessione. In questo modo il re d'Aragona pensava di controllare il territorio, tenere buoni i vassalli ed i villici e rintuzzare le velleità di riscossa dei Doria, Malaspina e Donoratico.
Iniziò così la prima fase della organizzazione nobiliare in Sardegna, ma non durò a lungo. Gli ispanici venuti al seguito dell'Infante erano in buona parte avventurieri in cerca di fortuna e non avevano alcuna voglia di restarci, per di più confinanti nei propri feudi. Cominciarono presto a rientrare in Spagna, talvolta vendendo il fondo, talaltra semplicemente affidandone l'amministrazione ad un dipendente. Invano Alfonso il Magnanimo, quando divenne re, cercò di trattenerli o di costringerli a tornare nell'isola, minacciando sanzioni e altre pene. Non c'era nulla da fare ed a poco a poco anche quelli che avevano affidato il feudo a un gestore locale finirono per venderlo. Qualcuno ne profittò, e fra questi furono i Carròç che arrivarono a insignorirsi di un gran numero di terre e di villaggi.
Trent'anni dopo la conquista Pietro il Cerimonioso venne in Sardegna per rimettere ordine: concesse ai sassaresi molti privilegi di generosità, convocò il Primo Parlamento del Regno, firmò qualche trattato, ma, quando se ne andò le cose non mutarono. Alla fine del secolo di tutto quello che avevano conquistato non restava agli aragonesi che le città di Cagliari, Alghero e Castellaragonese e i castelli di Acqua Fredda, San Michele e Quirra, questi ultimi due in mano ai Carròç. Tutto il resto era praticamente passato agli arborensi che avevano ricominciato a guerreggiare.

LA NOBILTA' NEL 1400
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Con il 1400 ha inizio la seconda fase di questa storia. Essa si svolse in due manche, la prima, iniziata con la riscossa contro i Giudici di Arborea, termina con la sconfitta del Visconte di Narbona e la fine del Giudicato, trasformato in marchesato di Oristano. La seconda manche inizia con la ribellione di Leonardo Alagon e termina con la sua sconfitta e la devoluzione del marchesato di Oristano alla Corona.
Durante questa seconda fase ci fu una nuova ondata di catalani, valenciani e aragonesi, giunti sia al seguito di Martino d'Aragona, nella prima manche, sia durante la seconda manche, attratti dalla spartizione del bottino giudicale che Ferdinando il Cattolico fece subito dopo la sconfitta del marchese. Ferdinando fu largo di concessioni specie con lo zio, Enrico Enriquez, la cui sorella, Giovanna, aveva sposato Giovanni Secondo d'Aragona. L'Enriquez aveva altre due sorelle, Roçella, sposata a don Luigi de Castelvì, dei conti di Carlete, e Aldonça, sposata a don Guglielmo Folch, conte di Cardona, i quali parteciparono, tramite il cognato Enrico, alla spartizione dei possedimenti arborensi.
Il 31 gennaio 1482 il Viceré Ximen Perez Escrivà de Romani convocò il Parlamento del Regno di Sardegna. Prendendo come riferimento le convocazioni di quel Parlamento , è possibile fare il punto sulla situazione a quella data. Gli 86 feudi, dieci dei quali appartenevano alla Corona, risultano divisi tra 46 feudatari, compreso l'Arcivescovo di Cagliari, barone di San Pantaleo, Santadi e Suelli. Risultano un marchesato (Oristano, della Corona, confiscato a Leonardo Alagon), tre contee (Quirra, dei Carròç, Oliva dei Çentelles e Goceano, come Oristano), 1 viscontado (Sanluri, dei Castelvì), 27 baronie e 54 signorie.
La distinzione tra Baronie e Signorie veniva utilizzata, probabilmente nei primi tempi, per distinguere le concessioni feudali da quelle allodiali. Secondo Loddo Canepa, che attribuisce quella distinzione ai vocaboli "baron" e "heretat" , i baroni, signori di Vassalli, avevano, nei confronti della Corona, obblighi censuali e militari, mentre i Signori avevano solamente obblighi censuali. "Genericamente" scrive Loddo Canepa "si indicavano col nome di baroni (barones, barons) i concessionari dei feudi e degli allodi". Ciò però solo dopo che, nel Parlamento de Elda (1602), lo stamento militare chiese ed ottenne che "abaix del nom de baro se entenga qual se vol senor de vassall ara sia baro o heretat, vel alias."
Tra i Signori feudali invitati dal Viceré, solo sei discendevano dalle prime famiglie di conquistatori: Carròç, Boyl, Erill, Pujades, Roig e Zatrillas. Degli altri, alcuni, come gli Aymerich, vennero per commerciare già all'epoca di Pietro il Cerimonioso, una decina risultano giunti nel periodo delle guerre della prima manche, gli altri sembrano tutti gente di nuovo arrivo.
Trenta di essi sono del Capo di Cagliari e di Gallura e quattordici di quello di Sassari e di Logudoro. 23 erano di origine catalana, 6 valenciani, 3 aragonesi, 2 spagnoli di non chiara origine, uno veniva dal Ronçiglione (Perpignano) e otto erano sardi, 4 sassaresi, 2 cagliaritani, uno era naturale di Iglesias, uno di Orosei e uno di Bosa.
Se si eccettuano donna Violante Carròç, don Pietro Luigi de Erill, don Luigi de Castelvì e don Pietro de Besalù (o Besaldu), non risulta che altri avessero ottenuto la patente di nobiltà. Ha scritto Francesco Loddo Canepa "Non si conservano nell'Archivio Regio di Cagliari concessioni di cavalierato e nobiltà anteriori alla prima metà del secolo XV." Frase ripetuta da Josefina Mateu Ibars che conferma quanto detto circa la non naturale coincidenza tra patente di nobiltà e titolo feudale.
Enrico Enriquez, che non pose mai piede in Sardegna, vendette quasi subito quel che il nipote gli aveva regalato, dando inizio alla terza fase di questa movimentata storia. Da quel momento i feudi, cessando di essere il guiderdone per un atto di coraggio al servizio del re, furono messi sul mercato e acquistati non più con la forza del braccio ma con quello della borsa.
Fu una fase che durò per quasi tutto il secolo XVI, raggiungendo forse l'apice attorno agli anni quaranta con l'opera di Salvatore Aymerich, il quale, già Signore di Mara Arbarei, villa che il nonno Pietro aveva acquistato il 21 settembre 1486 per 8810 lire da donna Antonia Caça, vedova di don Francesco de Alagon, si improvvisò sensale, acquistando feudi e rivendendoli, con lauti guadagni. Nel 1541, stando in Spagna, Salvatore Aymerich acquistò da don Antonio d'Erill le ville sarde di Gesico, Goni e Asuni e, poco dopo, quelle di Samassi, Samatzai e Ussana. Nel 1543, rientrato in Sardegna, le rivendette al dottor Pietro Sanna (Gesico, Goni e Asuni), ai fratelli don Matteo e don Filippo de Çervellon (Samassi e Samatzai) e a don Cesare Bonfil (la villa di Ussana).
Simile fu il destino del feudo di Canales che Ferdinando il Cattolico, dopo averlo confiscato allo sconfitto marchese Leonardo de Alagon, donò a don Galcerande de Requesens e da questi passò, per matrimonio ai de Cardona giungendo, nel 1538 a Nicolò Torresani che lo acquistò per 41.160 lire di moneta sarda.
Analoga sorte toccò al feudo di Parte Barigadu che il re Ferdinando concesse a Gaspare Fabra, Procuratore Reale, e dalle figlie di questi fu venduto, per il prezzo di 9500 ducati a Nicolò Torresani e don Carlo de Alagon. Il feudo fu diviso in due parti, l'una, Parte Barigadu de susu, restò agli Alagon, sia pure spostandosi da un ramo all'altro della casata, Parte Barigadu de Jossu andò invece ai Torresani e da questi, per alleanza matrimoniale, passò ai Çervellon.
Sono solo alcuni esempi di questa fase, la quale può considerarsi conclusa nella seconda metà del Cinquecento.

LA NOBILTA' NEL 1500
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La sistemazione definitiva della nobiltà in Sardegna cominciò dopo la sconfitta del marchese di Oristano come conseguenza dal nuovo assetto del Regno voluto da Ferdinando il Cattolico. Prima di allora esistevano proprietari terrieri a cui i Sovrani affidavano compiti militari e di giustizia. E questo con la nobiltà non sempre coincide.
Questo gruppo di signori isolani, non più di un centinaio, soffriva di un senso di inferiorità nei confronti della nobiltà spagnola la quale, sin dal xv secolo, chiarito che la dote della purezza dell'animo aveva il suo riscontro in quella del sangue, aveva delineato una ideologia nobiliare basata sulla limpieça, e proclamava il proprio sangue immune da promiscuità arabe od ebree. La purezza del sangue, che è ciò che consente al nobile il coraggio e lo destina a comandare sugli altri, si eredita in famiglia come le fattezze del volto e la statura. "Ecco allora che in Spagna molte famiglie inalberarono il vanto di discendere dai Goti, già padroni del paese prima della venuta degli Arabi. Una volta accertata la discendenza diretta dai Goti, la purezza del sangue era garantita, e le grandi casate non avevano più a temere i terribili 'Libri verdi' che pretendevano di svelare eventuali ascendenze ebraiche".
Si formò in questo modo, in Spagna, una ristretta cerchia di famiglie i cui antenati, comparendo come divinità eponime da un profondo e mitico Medioevo, giustificavano una limpieza gotica al di sopra di ogni sospetto. Esse costituirono il Grandato di Spagna. I Grandi, che alla fine del'500 non rappresentavano più di una ventina di famiglie, spesso di sangue reale, costituivano un gruppo sociale coerente e chiuso. Alla cerchia dei Grandi appartenevano i Duchi e qualche marchese ammesso per speciali onori: in Sardegna, allora, non vi erano duchi e l'unico marchese, l'Alagon di Villa Sorris, lo era da così poco tempo che non poteva sperare di entrare a far parte del novero dei Grandi. La verità è che, per la sua storia tormentata, la Sardegna non consentiva la scoperta di antenati provenienti dal profondo e buio Medioevo. In Sardegna c'erano "señores de vasalos" i quali, come ha scritto Pierre Chaunu, non costituivano certo una categoria nobiliare. Al massimo i nobili di Spagna erano disposti a riconoscere in Sardegna l'esistenza di una nobiltà di secondo grado, costituita da una certa quantità di "hidalgos", dai quali emergevano alcuni "caballeros". Ma la vera nobiltà era tutt'altro.
I titolati isolani soffrivano di questa pregiudiziale come di una limitazione che li escludeva dalla cariche più prestigiose, quali la Viceregia, il titolo di Arcivescovo di Cagliari e Primate di Sardegna e Corsica e quello di Reggente la Cancelleria, cioè il Cancellierato, l'equivalente di primo ministro. Essi perciò tentarono più volte di sormontare il pregiudizio andando alla ricerca di antenati tedeschi o alamanni, inventando progenitori venuti dal nord,
Don Salvatore Aymerich y Çervellon, conte di Villamar, figlio di don Ignazio, Caballero dell'ordine di Calatrava, nell'inviare al Sovrano una supplica, nel 1676, elencando le benemerenze del Casato, cominciò da un Berengario Aymerich, che venne a servizio di Sua Maestà nell'anno 733 alla conquista della Spagna .
Non da meno furono i Carròç la cui origine fu fatta risalire ad un improbabile ufficiale del disciolto esercito dell'imperatore Federico II, e i Çervellon, che vantarono antenati tedeschi o francesi sin dai tempi di Otger Català, il liberatore della Catalogna, mentre i Castelvì si dicevano discendenti da antenati venuti dalla Borgogna prima dell'anno Mille. I Manca, che nel 1600 ebbero una numerosa discendenza, vantavano antenati di origine sarda, uno dei quali, Guantino Manca, nel 1237 era stato Curadore de Campidanu .
Riuniti nello Stamento Militare, che in Parlamento si chiamava Braccio, si adoperarono per ottenere i riconoscimenti e, soprattutto, i privilegi della vera nobiltà, ma quando vi riuscirono, i Castelvì ottennero il Grandato nel 1704 e gli Alagon nel 1708, raggiunsero un traguardo che la Storia stava già superando. Pochi anni dopo la Sardegna cessò di essere spagnola.
Se si escludono la contea di Quirra, (1363), il viscontado di Sanluri (1463) e la conte di Oliva (1449), la elevazione dei feudi in contee e, poi, in marchesati, cominciò con Giacomo de Alagon, Signore di Sorris che, il 30 settembre 1537 vide il feudo elevato a contea, seguito, nel 1539, dalla elevazione del viscontado di Sanluri a contea di Laconi in favore di don Artal de Castelvì. Nel 1566, come si è visto, nacque, dal feudo di Canales, la contea di Sedilo, nel 1585 vi fu la istituzione del marchesato di Terranova in favore di don Pedro Massa Ladron, nel 1594 la elevazione della contea di Villasor a marchesato, e, nel 1595, la trasformazione del feudo di Montiferru, di don Angelo Zatrillas, in contea di Cuglieri.
Alla fine del 1500 la situazione a Cagliari era la seguente: poiché il duca di Mandas, il conte di Oliva e il conte di Quirra, che assieme detenevano circa il 50% di tutti i feudi dell'isola, risiedevano per lo più in Spagna, in cima alla piramide della nobiltà isolana stavano le due casate degli Alagon e dei Castelvì, che, per antichità e potere rappresentavano i punti di riferimento della restante nobiltà. Gli Alagon, divenuti marchesi di Villasor, avevano avuto l'ufficio di Prima Voce nello Stamento Militare del Parlamento sardo, suscitando la gelosia dei Castelvì i quali, fatti visconti di Sanluri sin dal 1449, si ritenevano di più antica nobiltà, anche se erano solamente conti di Laconi. Accanto a questi, ma in posizione differente, perché non feudatari, stavano i de Aragall che si trasmettevano di padre in figlio il Governatorato del Capo di Cagliari e di Gallura, come se fosse un feudo.
Seguivano don Nicolò Torresani, conte di Sedilo, don Giovanni Battista Zatrillas, conte di Cuglieri e don Gioachino Carròç y Çentelles, conte di Quirra . Venivano dopo i signori di vassalli, che venivano chiamati baroni, il barone di Mara, don Melchiorre Aymerich, il barone di Samatzai, don Guglielmo de Çervellon, il barone di Serdiana, Tomaso (poi Gaspare) Porcella, il barone di Furtei, don Gerolamo Sanjust e via via gli altri.
Durante il Parlamento tenuto dal conte de Elda tra l'autunno del 1602 e la primavera del 1603, ottennero la elevazione delle rispettive contee in marchesati, don Giaime de Castelvì, fatto marchese di Laconi, e don Gilaberto Carròç y Çentelles, che divenne marchese di Quirra. In quella stessa occasione il marchese di Laconi ottenne di poter passare al proprio figlio primogenito il titolo di Visconte di Sanluri, come si evidenzia dal fatto che da quel momento don Francesco de Castelvì e sua moglie, donna Caterina de Castelvì y Alagon, cominciarono ad essere chiamati, nei documenti ufficiali, Signor Visconte e Signora Viscontessa di Sanluri.

LA NOBILTA' NEL 1600
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Il 1600' è stato definito il secolo barocco per l'amore che divampò per tutto ciò che fosse di abbellimento e di arricchimento delle forme esteriori. In che modo il termine "baroco", che originariamente indicava il 4° tipo di sillogismo della Scolastica, sia stato usato in sostituzione del superlativo di "bizzarro" per passare poi a sinonimo di "eccesso del ridicolo" è quanto si chiese Benedetto Croce ricordando che la forma del sillogismo baroco, che è negativa particolare, tende a portare un ragionamento ai limiti dell'assurdo.
Lo stile barocco gonfiava e impreziosiva anche le doti che avevano nutrito, in passato, l'antica virtù nobiliare, e di cui oramai rimaneva poco: alla fortezza si era sostituito l'orgoglio, alla generosità la frivolezza e quanto alla purezza d'animo, non ne sussisteva più traccia, soppiantata dall'arroganza. "Si può definire l'orgoglio" ha scritto Jean La Bruyère, " una passione che fa che, di tutto ciò che esiste al mondo, non si apprezzi che se stessi" , mentre la vanità è "la passione di primeggiare nelle piccole cose o di cercare di distinguersi nelle frivolezze" . L'arroganza, infine, può ben essere detta il disprezzo degli altri scaturito dalla pretensione temeraria di reputarsi più degno e maggiore e dalla insolenza del darlo a vedere.
In un secolo nel quale divampava l'amore per il barocco, barocca fu anche l'architettura cetuale della nobiltà costruita come una piramide sulla cui cuspide sedevano il Re ed i Principi di Casa Reale. Seguivano i titolati, nell'ordine: duchi, marchesi, conti e visconti, poi i baroni e i signori e, in fondo alla piramide, i cavalieri.


IL CAVALIERATO
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Durante il 1600 i Sovrani di Spagna concessero a sudditi sardi il titolo di cavaliere, dapprima con parsimonia, successivamente con un crescendo pari al crescere delle esigenze delle casse reali.
Il cavalierato era ereditario nella famiglia, passando di padre in figlio, ma non si trasmetteva alle figlie. Veniva concesso dal re con un diploma speciale chiamato "privilegio militar de cavallerato". Ai cavalieri non spettava il titolo di don, riservato ai nobili, e questo chiarisce definitivamente la differenza esistente tra il diploma di nobiltà e quello di cavaliere (milites). Per non essere confusi con la plebe i cavalieri chiesero, sin dal Parlamento del 1592, che venisse loro riconosciuta la qualifica di "magnific" .
Talvolta il cavalierato veniva concesso ad personam e non aveva carattere ereditario, come, del resto, avveniva della nobiltà, con l'annesso titolo di don, che veniva riconosciuto ai Giudici della Reale Udienza ed ai professori universitari, ma non ai loro figli.
Accanto al cavalierato ereditario vennero concessi a sudditi sardi, a partire dal 1500, i diplomi di Cavaliere dell'Ordine Militare di Santyago e, dal 1600, quelli di Cavaliere dell'Ordine Militare di Calatrava, di Montresa e di Alcantara.
" Tra il 1528 e il 1704 nell'isola furono distribuiti 81 abiti, per metà dell'ordine di Santiago, il più prestigioso, un quarto di quello di Calatrava, un ottavo di Alcantara, restando appena l'8,5% all'aragonese Montesa." Si trattava di riconoscimenti ad personam, non trasmissibili, ma di grande prestigio per l'intera Casata che ne veniva illustrata in toto: nessun nobile dimenticava di citare, nelle genealogie, l'antenato Cavaliere di Santyago o di Calatrava. Tanto più in quanto quegli abiti non si vendevano, "ma costituivano una delle "mercedes" elargite alla nobiltà in sede parlamentare."
Aurea Javierre Mur ha dato l'elenco di cavalieri sardi negli Ordini di Santiago e di Calatrava, che riteniamo completo, anche se non esente da sviste soprattutto nella grafia dei nomi
I diplomi riportati dalla Mur per l'Ordine di Santiago sono 46, concessi tra il 1528 e il 1817. 8 furono dati nel 1500, 31 (cioè il 67,40%) nel 1600, 6 nel 1700 e 1 nel 1800.
Facendo riserva per il primo, concesso da Carlo V nel 1528 a Baltasar Escriba de Romani, figlio del Viceré Ximen, che la Mur cita perché la madre, donna Caterina de Sena, era sarda, si può ben dire che il primo sardo a ricevere il diploma di Cavaliere dell'Ordine Militare di Santyago fu don Salvatore Aymerich, barone di Mara, nel 1534. Seguirono nel 1560 don Artal de Castelvì, 4° visconte di Sanluri e 1° conte di Laconi, e nel 1567 don Jaime de Alagon, conte di Villasor. Subito dopo,in una unica infornata, nel 1568, ebbero il Cavalierato di Santiago don Emanuele de Castelvì, fratello di don Artal, don Jaime de Aragall, e don Luigi de Castelvì, figlio di don Artal, 5° visconte di Sanluri e 2° conte di Laconi, mentre il fratello, don Jaime de Castelvì, ricevette lo stesso cavalierato nel 1587, come 6° visconte di Sanluri e 3° conte di Laconi.
Insomma Aymerich, Castelvì, Alagon e Aragall, il Gotha della nobiltà sarda del XVI secolo furono da Carlo V e da Filippo II ritenuti degni dell'abito di uno degli Ordini più esclusivi, entrando così a far finalmente parte della vera nobiltà ispanica.
Nel 1600 ebbero il Cavalierato tre Alagon, due Amat, un Aragall (don Diego), tre Castelvì, uno Zatrillas, due Çervellon e un Sanjust, ancora la crème, ma anche Bacallar, Brondo, Cani, Dexart Gualbes, Deliperi, Delitala, Manca, Masones, Ravaneda e Torrellas e nel 1700 Bonfant, Masones, Sanjust, Silva e Sotomayor. L'ultimo ad avere il diploma fu, nel 1817, Ramon Valentino, di Meana.
Per quanto riguarda i Cavalieri dell'Ordine Militare di Calatrava, i nomi che Aurea Javierre Mur riporta sono solo 21, dal 1618 al 1704. 17 sono stati conferiti nel 1600 (81%) e 4 nel 1700. Il primo a ricevere tale riconoscimento fu don Giovanni Battista Zatrillas, 2° conte di Cuglieri, cui seguirono nel 1623 il figlio don Geronimo Zatrillas, nel 1631 don Azore Zapata, nel 1632 don Agostino de Castelvì, marchese di Laconi, nel 1634 don Giuseppe de Castelvì y Sanjust, don Francesco Barbaran y Zapata e don Francesco Manca Guiso, figlio del barone di Orosei, nel 1635 don Ignazio Aymerich, conte di Villamar.
Ebbero, in seguito, il Cavalierato di Calatrava un Abella, due Aymerich, un Barbaran, un Brunengo, tre Castelvì, un Çervellon, tre Zatrillas, un Farina, un Delitala, un Manca Guiso, un Manca Zonza, due Massones, un Sanna Castelvì, un Sanatela e uno Zapata.
Vi è, in questa piccola cronaca delle concessioni di cavalierato, una sintesi della storia della nobiltà sarda: una parte di coloro che ebbero il Cavalierato di Calatrava erano figli o nipoti di quelli che nel secolo precedente avevano avuto il cavalierato di Santiago, ma altri erano gente nuova, uscita dai ceti emergenti che, dando la scalata alla società, giungevano al cavalierato e al titolo nobiliare, suprema aspirazione borghese.
"Il boom dei titoli ci cavalierato e di nobiltà è tutto del XVII secolo", scrive ancora Bruno Anatra. Secondo un calcolo fatto su 450 titoli nobiliari concessi tra il 1400 e il 1700, il 60 % appartiene al 1600.

LA PRAMMATICA REALE SU I TITOLI
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La caratteristica principale di questa epoca fu la ricerca affannosa dei diplomi di nobiltà, che costringeva anche le famiglie notoriamente nobili ma prive di diploma, per averlo smarrito o mai avuto, a trovare il modo di dotarsene arricchendo la Corona e i suoi intermediari. Infatti i diplomi di nobiltà, o di cavaliere, che erano assoggettati al versamento dei diritti al Fisco, costavano molto di più in balzelli e regalie.
Ma poiché i nobili godevano di alcuni allettanti privilegi erano in molti ad asserire di esserlo il che rese necessario il controllo della reale esistenza del titolo. Con il Parlamento del Viceré don Alvaro de Madrigal, aperto nel 1559, vennero istituiti gli abilitatori, con il compito di riconoscere la fondatezza del diritto di coloro che domandavano di parteciparvi . A quel Parlamento furono invitati 45 signori di vassalli, oltre all'arcivescovo di Cagliari, seguiti da una schiera di nobili non feudali e di cavalieri.
Questa corsa alla nobiltà aveva ingenerato una parallela corsa ai titoli onorifici di cui era invalsa l'abitudine di fregiarsi in maniera, appunto, barocca al punto da sfiorare il ridicolo. Non nel solo Regno di Sardegna, ma in tutti gli stati della Spagna era un susseguirsi di Mossen, Magnific, Venerabilis, Illustrissimus, Egregius, e così via. Sabba da Castiglione, parlandone, nei suoi "Ricordi", scriveva:
" noi altri italiani siamo molto obbligati alla nazione spagnola, perché avanti la venuta di essa in Italia, tutti eravamo messeri e madonne, ora semo divenuti signori e signore, e donni e donne, di sorte che i titoli sono molto ben cresciuti, ma li stati (per quanto mi par comprendere) sono diminuiti e mancati, di maniera che io vorrei piuttosto essere stato un buon messere di quei tempi che un tristo signore di questi."
Filippo II, "per porre ordine in quell'abuso che esiste nel trattamento a voce o per iscritto", e perché " il vero onore non consiste nella vanità dei titoli dati per iscritto o a voce, ma in altre maggiori cause " l'otto di ottobre 1586 da San Lorenzo dell'Escurial aveva emanato una Prammatica che regolamentava l'uso degli appellativi .
Dopo aver precisato che il titolo di Maestà e Nostro Signore andava dato soltanto al Re, mentre al Principe Ereditario, alla Principessa e alla Regina spettava il titolo di Altezza e Nostro o Nostra Signora, aggiungeva che, per gli altri membri di Casa Reale era sufficiente l'appellativo di Signor Infante don... o Signora Infanta donna ..., mentre alla Imperatrice, sorella del re, andava dato quello di Signora Infanta di Castiglia.
Il titolo di Eccellenza o Signoria Illustrissima o Reverendissima spettava solamente ai cardinali e all'arcivescovo di Toledo, per essere Primate di Spagna, anche se non era cardinale. Agli Arcivescovi e ai Vescovi spettava il titolo semplice di Signoria, che andava dato anche ai duchi, marchesi, conti, ai Commendatori degli Ordini di Santjago, Calatrava, Alcantara, al Presidente del Consiglio del Re e al suo Cancelliere, come anche alle Città Capi di Regno ed ai Capitoli che fossero Metropolitani. Lo stesso titolo spettava agli ambasciatori accreditati a Corte.
Ai conti, marchesi, cavalieri e prelati spettava inoltre il titolo di don davanti al loro nome. Ai religiosi degli Ordini andava dato della Paternità o della Reverenza. Solo duchi, marchesi e conti e nessun altro, erano autorizzati a porre corone sopra lo stemma , purché lo ponessero secondo quanto spettava a ciascuno.
Tra padri e figli e tra mariti e mogli non si doveva usare alcun titolo, neanche per iscritto.
Ai trasgressori andava applicata una multa di mille maravedì, così tripartita: un terzo al delatore, un terzo al giudice che applicava la condanna e l'altro terzo in opere pie.
La Prammatica, entrata in vigore il 1° gennaio 1587, non pare avesse molto seguito, giacché non solo i magistrati continuarono a farsi chiamare magnifici e notabili, ma il titolo di don divenne comune a tutti i diplomati, senza riferimento al titolo feudale e l'arcivescovo di Cagliari cominciò a farsi chiamare Signoria Reverendissima, quasi fosse divenuto cardinale.

LA NOBILTA' DI TOGA
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I Re di Spagna, volendo creare, a fianco del ceto nobiliare, un contraltare reale che lo sorvegliasse, usavano affidare l'amministrazione dell'isola a persone provenienti dai loro stati ispanici. La Viceregia, l'Arcivescovato di Cagliari, i prestigiosi uffici del Consiglio Patrimoniale e di Giustizia, e quelli della Reale Udienza non venivano concessi ai residenti i quali se ne lamentavano, chiedendo invano ad ogni Parlamento, la loro ammissione.
Prendendo una qualsiasi delibera del Consiglio Patrimoniale e di Giustizia degli anni tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, si può facilmente riscontrare questa esclusione dei locali. La Reggenza della Cancelleria, l'equivalente della carica di Primo Ministro del Regno, era affidata a Giovanni Pietro Soler, la Procuratoria Reale a don Onofrio Fabra y Dixar, l'ufficio di Maestro Razionale a Francesco Ravaneda, la Reggenza della Tesoreria Generale a don Giovanni Naharro y de Ruescas, l'avvocatura fiscale a Giovanni Antonio Palou, poi all'avvocato Giovanni Masons. Segretario era Angelo Bonfant. E tutti questi personaggi provenivano dalla Spagna, con preferenza per la Catalogna.
Tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo alcune di queste famiglie di magistrati, accumulato potere e ricchezza, costituirono un secondo ceto privilegiato, dopo quello feudale che non tardò ad ottenere la ereditarietà degli uffici, tramandandoseli di padre in figlio, proprio come feudi. Ciò fatto, cominciarono la scalata ai titoli nobiliari.
Il caso più noto, oltre quello dei de Aragall, che furono Governatori del Capo di Cagliari e di Gallura di padre in figlio per alcuni secoli, fu quello dei Fabra.
Don Onofrio Fabra y Dixar, comunemente detto don Nofre, i cui antenati erano stati Procuratori Reali dalla metà del secolo precedente, ricoprì quella carica dal 1560 , o dal 1563, come sostenne egli stesso , sino alla morte avvenuta nel 1615. La Procuratoria Reale aveva competenza sui donativi, le regalie, i diritti sovrani e le altre proprietà reali, aveva voce nella concessione dei feudi, amministrava le saline, i porti, i macelli e le miniere : si trattava di un ufficio in parte simile a quello del Viceré, anche se limitato ai soli aspetti amministrativi e finanziari del Regno, dei quali il Procuratore rispondeva soltanto davanti al Sovrano.
I Fabra facevano parte della consorteria dei Castelvì, cui erano legati da nozze sia di parte Dixar che da parte Fabra, avendo una Anna de Castelvì sposato don Giovanni Dixar y Fabra .
Don Nofre sposò, in seconde nozze donna Aldonça de Castelvì, signora delle baronie di Siligo e di Baunei, sorella del 3° conte di Laconi, don Giacomo, consolidando così la sua posizione nel giro dei Castelvì. Da un primo matrimonio don Nofre aveva avuto un figlio che venne chiamato Giovanni ed è noto come don Giovanni Dixar, dal secondo matrimonio nacquero tre figli, due dei quali, Francesco e una fanciulla, perirono entrambi durante l'epidemia di vaiolo del 1602, e la terza, Marianna, nata l'8 di settembre 1587 , il 26 luglio 1604 sposò don Paolo di Castelvì, figlio di don Francesco, 2° marchese di Laconi.
Nel 1601 don Nofre ottenne dal Sovrano la nomina a Coadiutore del Procuratore Reale per il figlio Giovanni, con la esplicita riserva di nominarlo Procuratore Reale al suo ritiro. Da quel momento don Nofre cominciò a lasciare sempre più spazio al figlio per prepararlo al futuro compito. Nel 1602 furono entrambi coinvolti nella accusa di negligenza ed omissioni nei controlli del loro ufficio, fatta dall'Arcivescovo Lasso Sedeño e dal dottor Monserrato Rossellò, che il re aveva nominati Visitatori del Regno di Sardegna. Don Nofre dovette, suo malgrado, andare a Madrid a discolparsi, ma il 13 marzo 1603 Filippo III, ritenute manifestamente infondate le accuse, lo assolse assieme al figlio, confermando entrambi nei loro incarichi.
Fu una vittoria per il vecchio don Nofre che, dopo 40 anni di servizio, si trovò di nuovo saldo alla Procuratoria, e la gente commentò che era giusto. Don Giovanni Dixar non gioì a lungo di quella vittoria perché morì il 9 agosto 1606 . A don Nofre non rimaneva ormai che Marianna, sposata a don Paolo de Castelvì e su questi il vecchio Procuratore concentrò affetto ed ambizione.
Superata una nuova denuncia di malversazione, fatta nel 1611 dal Visitatore Reale don Martin Carrillo, don Nofre, giunto al termine della sua lunga vita, nel 1615 inviò una supplica al Sovrano, con la quale chiese che, come ringraziamento per il lungo servizio, alla sua morte l'ufficio della Procuratoria Reale venisse assegnato al genero, don Paolo de Castelvì, cavaliere di Santjago. Tale era la influenza e il prestigio del vecchio Procuratore che Filippo III non poté rifiutare la richiesta e il 7 giugno 1616 don Paolo ricevette in Duomo, alla presenza del marchese di Lombay, don Francesco Borgia, figlio del Viceré, e di don Raimondo Zatrillas, l'investitura della Procuratoria Reale.
Non dissimile fu la storia dei Ravaneda, anch'essi all'ufficio di Maestro Razionale per eredità dalla metà del XVI secolo. Le mansioni del Maestro Razionale riguardavano la registrazione delle prammatiche e dei decreti, e il controllo dei registri ove venivano segnate le spese pubbliche. Francesco Ravaneda fu Maestro Razionale dal 1585 al 1603, anno in cui morì . Egli aveva sposato in prime nozze Marchesa Cariga, dei Cariga signori di Thiesi, feudo, un tempo dei Manca di Sassari, passato ai Cariga per alleanza matrimoniale, e in seconde nozze, il 18 agosto 1596 , donna Maria de Cervellon y Cavaller. Dal primo matrimonio aveva avuto un figlio, Pietro, che sposò Elena Cariga, unica figlia ed erede di Pietro Cariga, Signore di Thiesi e Villa di Monti.
Francesco Ravaneda morì l'11 ottobre 1603 e l'ufficio di Maestro Razionale passò, qualche anno dopo, a suo figlio Pietro Ravaneda y Cariga con un salario di 53 ducati d'oro, lo stesso di cui aveva goduto il padre. Entrati nella nobiltà per matrimonio, i Ravaneda, divenuti signori di Thiesi, furono fatti marchesi di Montemayor con Pietro II, figlio di Pietro e di Elena Cariga.
Anche la famiglia dei Fortesa partecipava di quella classe di togati in corsa verso la nobiltà, susseguendosi quasi senza soluzione nel Consiglio Cittadino come Giurati dalla metà del 1400 e intrecciandosi con i Ram e con i Çervellon. Gaspare Fortesa, figlio di Pietro, Ricevitore del Riservato nel 1552 , sposò, il 25 novembre 1587 Maria Santa Cruz; divenuto vedovo, si risposò il 25 novembre 1604 con Agnese Ram. Fu una cerimonia sfarzosa e importante cui fecero da testimoni don Jaime de Aragall, allora Presidente del Regno, e il magnifico Giovanni Pietro Soler, Reggente la Cancelleria, come dire, le maggiori autorità del Regno, dopo il Sovrano. Diede loro la benedizione nuziale il decano capitolare dottor Giovanni Tomaso Caldentey, vicario generale per l'assenza di Monsignor Sedeño. Gaspare Fortesa fu consigliere in capo della città di Cagliari per l'anno 1604. I Fortesa continuarono la loro scalata verso la nobiltà e la raggiunsero con un Francesco che, sposò Maria Porcella, figlia di Giovanni Battista Porcella, fratello di Nicola, barone di San Sperate, Serdiana e Donori.
Alla morte di Nicola Porcella, nel 1628, l'eredità fu contesa dai fratelli del morto, Francesco e Maria e dalla nipote Maria Fortesa y Porcella, a tutti opponendosi il Fisco che riteneva il feudo devoluto allo Stato. La spuntò Maria Fortesa y Porcella dopo una lunga e costosa lotta, lasciando poi il feudo al proprio figlio Giovanni Battista Fortesa, che divenuto barone il 16 maggio 1639, fu, in seguito, nominato conte di Monteacuto.
Ruecas e Naharro furono altre due famiglie i cui esponenti, giunti in Sardegna come funzionari governativi, vi si stabilirono, iniziando il cammino verso la conquista di un feudo e della nobiltà.
Pietro de Ruecas fu forse il primo che venne attorno al 1553 come Luogotenente del Tesoriere d'Aragona per la Tesoreria della Sardegna . Quando Filippo II decise, nel 1558, di istituire per il Regno di Sardegna, un ufficio di Tesoreria Generale, indipendente da quello di Aragona, ne affidò la Luogotenenza a Pietro de Ruecas che divenne poi, nel 1560, Reggente a pieno titolo, giurando nella mani del Viceré don Alvaro de Madrigal.
Monserrato de Ruecas, forse figlio di Pietro, ebbe la Reggenza della Tesoreria Generale del Regno di Sardegna nel 1586, tenendola per una decina d'anni. Aveva due figlie, la prima, Caterina, sposò Tomaso Brondo, figlio del Signore di Serramanna e di Villacidro a cui diede due figli, Antonio Brondo y Ruecas che divenne prima conte di Serramanna, nel 1616, e poi marchese di Villacidro, nel 1626, e Angela, che sposò don Giovanni Sanjust y Barbaran. L'altra figlia di Monserrato de Ruecas, Francesca sposò, il 5 febbraio 1591 Giovanni Naharro appartenente ad una famiglia di origine iberica che in Sardegna esercitava le professioni liberali. Domenico Naharro era il medico dell'Arcivescovado di Cagliari, Giovanni, forse suo fratello, faceva le sue prove nella amministrazione reale.
Donna Francesca Naharro y Ruescas morì il 14 aprile 1594 e don Giovanni ne assunse il cognome, aggiungendolo al proprio. In seguito si risposò con donna Giovanna Bacallar e, alla morte del suocero, Monserrato de Ruescas, lo sostituì come Reggente della Tesoreria Generale del Regno di Sardegna
Dalla seconda moglie, Giovanna Bacallar, don Giovanni ebbe un figlio, Pietro, che, il 6 aprile 1614, alla morte del padre, ebbe l'ufficio di Reggente la Tesoreria Generale. Data la sua minore età, il posto venne tuttavia affidato, il 5 dicembre 1615 interinalmente, a Giuliano de Abella.
Il Reggente la Cancelleria, Giovanni Pietro Soler, fidanzò la propria figlia Isabella con don Gerolamo de Çervellon, erede della baronia di Samatzay, ma la giovinetta morì a soli 14 anni. Forse anche per questo Giovanni Pietro Soler lasciò la Sardegna, per la Catalogna ove fu nominato Giudice della Curia Catalana, del Ronçiglione e della Çerdaña. Venne sostituito da Giuseppe Mur che, ritenuto nobile, mutò il suo nome in de Mur.
Di questa consorteria facevano parte anche Giovanni Antonio Palou, avvocato fiscale, la cui figlia Benedetta sposò don Filippo de Çervellon, e Giovanni Masons oriundo della Catalogna, laureato in leggi, che fece in Sardegna una brillante carriera. Il Palou morì nel 1601, venendo sostituito dall'avvocato Masons che raggiunse in seguito l'ufficio di Giudice della Reale Udienza. Sposò Anna Guiò, dei baroni di Muros e Ossi, venendo, per questo considerato nobile. Suo figlio Giovanni fu giudice della Reale Udienza.


ALLEANZE MATRIMONIALI
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Ma perché queste persone, già ricche e potenti, si davano tanto da fare per imparentarsi con la nobiltà? Non certo per una questione di quattrini giacché i feudatari dell'epoca, se si fa eccezione per i detentori dei grandi feudi, come i Çentelles, i Borgia, i ed i Mendoza, che però non risiedevano in Sardegna, gli Alagon, i Castelvì ed i Gualbes, che invece vi passavano la maggior parte del loro tempo, erano tutti più o meno oppressi dai debiti indispensabili a mantenere il rango con i più potenti. I motivi di prestigio e la vanità erano certamente alla base di tale desiderio di ascesa cetuale, ma soprattutto ciò che faceva gola erano i privilegi di cui godeva la nobiltà. I nobili erano infatti esenti da qualsiasi tipo di tassazione, eccezione fatta per il donativo, non erano soggetti alla giurisdizione dei Veghieri urbani nè a quella feudale, anche se vassalli di baroni. Facevano capo alla giurisdizione del Viceré e dei Governatori dei due Capi, con i quali ci si poteva intendere, e dovevano essere giudicati da un collegio di probiviri. Inoltre non potevano essere torturati né arrestati per debiti. Ce n'é abbastanza per comprendere le motivazioni che spingevano la "nobiltà di toga" ad entrare in quella "di spada"
Cominciò così, nel 1600, una nuova fase caratterizzata da un lato dalla elevazione di molti feudi al titolo comitale e marchionale, e dall'altra dal passaggio dei feudi non più per vendita (tranne i casi di devoluzione da parte del Fisco, del resto assai sporadici) ma per alleanze matrimoniali, da padre a figlia ed a genero, o da nonno a nipote ex filia. Ciò risulta dal controllo del numero di feudatari invitati ai Parlamenti svoltisi in quel secolo: nel 1603, Parlamente de Elda, vennero convocati 46 "heretat", possessori di feudi; il numero si stabilizzò poco dopo in 45 salendo a 48 nei Parlamenti Lemos (1653-1656) e Camarassa (1666-1668) per tornare subito dopo a 45 e giungere a 43 nel Parlamento Montellano (1697-98) . Non cambiava il numero di feudi, cambiavano però i titoli e i nomi dei feudatari.
In quegli anni i feudi passarono di mano, come avvenne nel già citato caso della contea di Sedilo, che passò da don Guglielmo Torresani alla figlia Marquesa, sposata con Gugliemo de Çervellon, e da questa al figlio Bernardino de Çervellon y Torresani, o della contea di Quirra che passò da don Gioachino Carròç y Çentelles alla figlia Alamanda e da questa al marito, don Cristoforo de Çentelles, divenuto, per l'occasione, Gilberto Carròç y Çentelles per giungere, alla fine del secolo, ai Borgia.


LA ELEVAZIONE DEI TITOLI
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Con il fiorire dei titoli si rese necessario un ordine che ne regolasse le precedenze. Seguendo il Loddo Canepa si può dire che nel 1600 fossero oramai identificate le quattro principali categorie della aristocrazia sarda, che erano il nobile feudatario, il feudatario non nobile, il cavaliere nobile e il semplice cavaliere non nobile. A queste si aggiungeva una quinta classe formata dagli Scudieri o Donzelli, figli di heretat non ancora fatti nobili. Secondo il Loddo Canepa al nobile feudatario spettava il Noble Don o semplicemente il Don in precedenza del nome che veniva seguito dall'appellativo heretat; al feudatario non nobile si dava del Mossen, del Magnifich Mossen o Amado prima del nome cui seguiva l'appellativo heretat; ; al semplice nobile che fosse anche cavaliere spettava il Don o anche il Noble Don davanti al nome; al semplice cavaliere si dava del mossen o micer o amado che doveva precedere il nome, mentre il titolo Cavaller lo seguiva. Al Donzello si dava dell'amado o mossen che precedeva il nome e mentre la qualifica di Donzell lo seguiva.
Negli anni che seguirono il processo di elevazione dei feudi in contee e marchesati continuò con ritmo crescente. Fotografando la situazione alla fine del secolo, quando il potere della Spagna era agli sgoccioli, e prendendo come punto di riferimento il Parlamento celebrato nel 1698-99 dal Viceré conte de Montellano, che fu l'ultimo Parlamento della storia sarda, risultano :
1 Ducato, 16 Marchesati, 11 Contee, 1 Viscontado, 31 Baronie e 26 tra Signorie ed altri feudi, ivi compresi quelli appartenenti alla Corona. In particolare:
Il ducato era attribuito a don Giovanni Emanuele Lopez de Zuñiga, duca di Mandas, marchese di Terranova, barone di Sicci, Signore della Barbagia di Ollolai e della Barbagia di Seulo.
I Marchesati risultano così distribuiti:
de Alagon Blasco, marchese di Villasor, Signore della Trexenta e di Parte Barigadu de susu
Borgia y Çentelles Pasquale Francesco, (duca di Gandia in Spagna), marchese di Quirra, conte de Oliva,
Brondo Maria Ludovica, marchesa di Villacidro, marchesa di Palmas, baronessa di Monastir, Nuraminis, Siliqua e Gioiosa Guardia,
de Silva Fernandez Federico, marchese di Orani, signore della Gallura Gemini,
Castelvì Giovanni Francesco, marchese di Laconi, visconte di Sanluri, barone di Ploaghe, signore di Samassi e Serrenti e di Asuni e Nureci,
Ferret Gerolamo, marchese di Valverde
Fortesa Giovanni Battista, marchese di Cea, Signore di Serdiana e Donori e di San Sperate,
Manca Guiso Antonio Giovanni, marchese di Albis, barone di Ussana,
Manca Antonio, marchese di Mores,
Miranda Sancio Ferdinando, marchese di Torralba,
Ravaneda Pietro IV, marchese di Montemajor,
Zonza Vico Francesco II, marchese di Soleminis,
Zatrillas Giovanni Battista, marchese di Villaclara.

Queste le contee:
Aymerich Salvatore, conte di Villamar, signore della Minerva,
Çervellon Isabella, contessa di Sedilo, signora di Parte Barigadu de jossu, baronessa di Bonvehì e di Austis,
Brunengo Domenico, conte di Cuglieri,
Manca Francesco, conte di San Giorgio,
Masons Giuseppe, conte di Montalvo,
Rocamartì Simone, conte di Monteleone,
Sanjust Dalmazzo, conte di San Lorenzo, barone di Furtei, Pauli e Elmas,
Tola Giovanni Battista, conte di Bonorva, barone di Pozzomaggiore

Seguono le baronie, tra le quali quella di Teulada (Catalan), di Samatzay e Tuili (Çervellon), Monti (dell'Arca), Fluminimaggiore (Gessa), Musei (Compagnia di Gesù), Ossi (Guiò), Burcei (Martin), Muros (Martinez), Senis (Nin), Putifigari (Pilo Boyl), Capoterra e Sarroch(Torrellas) e Las Plassas (Zapata).
E le Signorie: Lunafras (Amat), Tului (Otger), Olmedo (Petretto), Gesico e Goni (Sanna Bruno), Gesturi (Ponti y Trorrellas).
Compaiono ancora le antiche casate degli Alagon, Castelvì, Zatrillas Çervellon, Aymerich, Amat, Sanjust e Zapata, ma sono scomparsi i Carròç e i Çentelles, sostituiti dai Borgia, i de Aragall, i Gualbes e Bellit, sostituiti dai Brondo. Molti nuovi nomi provengono dalle Magistrature Reali, come i Fortesa, i Ravaneda, i Masons, altri, come i Tola, Ledà, Petretto, Sanna Bruno, Guiò appartengono alla piccola nobiltà provinciale in corsa verso i titoli nobiliari di maggior prestigio.
Questa rincorsa proseguì durante gli incerti anni in cui, dopo la morte di Carlo II, la Sardegna fu contesa tra gli Asburgo d'Austria e i Borbone di Francia: furono anni di grande confusione politica, di cui cercarono di profittare molti isolani che acquistarono, a poco prezzo, il titolo di nobiltà e di cavaliere da un poco scrupoloso Viceré don Gonzalo Cachon. Non si sa se per proprio tornaconto o per quale altro gioco politico, il Cachon vendette i titoli al prezzo stracciato di 15 scudi, senza andare per il sottile e senza passare attraverso le guarentigie che salvavano almeno il decoro degli adepti. I Savoia, prendendo possesso della Sardegna nel 1720, appellandosi al Trattato di Londra, che non aveva riconosciuto quei titoli, pretesero da chi proprio ci teneva un nuovo pagamento dei giusti diritti.