Essere, avere, apparire: l'aristocrazia

"Le ladies sarde hanno i modi delle francesi. Dicono sempre ciò che pensano e non hanno idea della riservatezza. Si lasciano baciare le mani, si lasciano abbracciare durane il ballo, si appoggiano col braccio sulla spalla del cavaliere. La loro spontaneità è piacevole e non ha nulla di malizioso dal momento che in una società chiusa, in cui i legami fra le persone sono generalmente conosciuti, la fiducia e la sincerità da parte delle donne generano naturalmente onore e stima nel cuore degli uomini."
Il venticinquenne capitano dei marines David Sutherland, sbarcato a Cagliari il 25 agosto 1787, al pranzo offerto in suo onore dal viceré si lascia incantare da un cinghiale arrosto, ma soprattutto dalle commensali belle e spiritose fra cui spicca Francesca Manca Aymerich, moglie diciassettenne del vecchio marchese di Villarios. Nel pomeriggio, accompagnato dalle dame, il capitano visita un convento di cui è superiora una zia della Villarios, vittima di una sfortunata vicenda di eredità e d'amore e la sera successiva, invitato dal viceré ad una festa di ballo, può conoscere una ventina di signore.
Il giovane capitano apprezza l'abbigliamento privo di false protuberanze e la vivacità della conversazione delle dame, restando sempre più affascinato dalla bruna bellezza della marchesa Villarios, di cui decanta l'eleganza delle movenze, lo splendore del viso e degli occhi. Le danze in suo onore sono tutte inglesi tranne la courance ed un ballo sardo e l'ufficiale, tra un sorbetto e l'altro, può ballare con la "divina" sino all'una di notte, per concludere: "Io avevo spesso cercato di formarmi un'idea di Eva nel suo stato di innocenza, ma mai c'ero riuscito, finchè non vidi questa affascinante Marchesa. Per classe ed eleganza essa è figlia della Natura e Natura nella sua perfezione."
Se il palazzo viceregio è la sede privilegiata dei rapporti fra la Sardegna e l'Europa, le vere e incontrastate protagoniste delle relazioni sociali al più alto livello sono le dame. Lo coglie David Sutherland (e non è il primo, né sarà l'ultimo dei viaggiatori a descrivere tale evidenza) senza alcuna meraviglia: in tutta Europa le donne aristocratiche svolgono lo stesso ruolo di mediatrici o di partners di quel "gioco di squadra", di cui parla Renata Ago, "all'interno del quale viene loro assegnato un ruolo indispensabile, che non può essere ricoperto da altri. Le donne rappresentano il lato informale degli uomini cui appartengono ed è la loro presenza a rendere possibili tutti i rapporti che hanno bisogno di mantenersi su un piano non formalizzato".
Già trent'anni prima il cosiddetto Anonimo Piemontese, un ufficiale che era stato quattro anni in Sardegna, aveva annotato nel suo diario "Questa nobiltà è amantissima delle conversazioni…occasionate dalle visite che le Dame si rendono le une alle altre." Le conversazioni consentono relazioni informali fra le famiglie del castello e con i nobili di passaggio. Sono le dame ad informarsi immediatamente della "qualità" (nobile, ovviamente) degli ufficiali sbarcati con le nuove truppe e ad inviare un paggio per dare loro il benvenuto, sono le dame che li invitano alle conversazioni e, soprattutto le giovani, ricevono volentieri aggiornamenti sulla moda forestiera e apprezzano la spontaneità degli ospiti che contrasta "col serio de' Mariti e delle Vecchie".
Le conversazioni delle dame, cui partecipano anche gli uomini, costituiscono nel Settecento il clou della vita sociale della nobiltà cagliaritana. Soprattutto le conversazioni con rinfresco, dette di carapigna, richiamano buona parte dell'aristocrazia locale e danno modo alla padrona di casa di mostrare la propria raffinatezza e la disponibilità economica della famiglia perché- così dice l'Anonimo- le conversazioni "sono di gran spesa". Speranza Vico Zapata, marchesa di Soleminis e moglie del Barone di Sorso, riceve due volte all'anno in occasione del ritorno dai suoi feudi, facendo acquistare per l'occasione caffè di Levante, cioccolata, vini di Malaga e di Corfù, rosolio, torroni di Alicante e nocciole. D'estate è d'obbligo servire il sorbetto, la cui gran quantità (in casa Sorso se ne comprano sino a 200 vasi) è dovuta- afferma ancora l'Anonimo- al "grande concorso" ed all' "avidità della nazione per il dolce", assicurando di aver visto una persona mangiarne 15 in una sera (ma come non ricordare Vittorio Amedeo II che definiva le riunioni del Parlamento siciliano come occasioni utili solo a consumare sorbetti?).
Nel corso del ricevimento si conversa informalmente e si gioca a tarocchi, a carte francesi e spagnole, le donne si baciano molto l'un l'altra e controllano l'effetto dei loro abiti da sera. Qualche signora fa confezionare gli abiti dalla governante che fa anche da sarta e da parrucchiera; chi può permetterselo compra gli abiti "dal Continente" e sfoggia cappellini alla moda di Torino, una vera e propria rivoluzione del gusto favorita, alla metà del secolo, dagli ufficiali piemontesi, accolta dalle giovani nobildonne con entusiasmo e deprecata dalle anziane che non usano ancora alcun tipo di copricapo. I ritratti femminili dell'epoca mostrano corpetti strizzati e scollati cui fanno da contrappunto gonne ampie e lunghe, ma, se dobbiamo credere al giovane Sutherland, la moda francese non fu mai accolta nelle sue forme più enfatiche e ridondanti delle stecche di balena e dei paniers. Qualche signora esibisce collane di diamanti, le più portano collane di perle o di granate oppure più semplici nastri.
Il bel ritratto (o autoritratto? La signora sapeva dipingere) di Francesca Manca Aymerich in abito bianco e trasparente dal profondo décolleté, mostra l'affermarsi anche a Cagliari del gusto neoclassico alla fine del Settecento che porta con sé, insieme alla famiglia reale profuga dal Piemonte, nuove abitudini anche per le signore. La vita di corte riempie le giornate delle dame di palazzo, la domenica pomeriggio la regina riunisce il circolo delle dame, il venerdì l'Accademia di musica e molte nobildonne cagliaritane sanno suonare il cembalo e cantare con vera maestria. Il teatro, già luogo di frequentazione privilegiato dall'aristocrazia cagliaritana, offre cartelloni e occasioni sociali sempre più stimolanti e si anima di gentiluomini e nobildonne mascherati nelle feste del carnevale, momento liberatorio per eccellenza, soprattutto per coloro che, nascosti dalla maschera, possono lasciarsi andare a quelle licenze normalmente impedite dal senso del decoro.
Nei Discorsi, l'opera letteraria di Annibale Romei ambientata nel palazzo ducale estense del bosco della Mesola nel 1584, il conte Guido Calcagnini, denunciando la schiavitù cui i nobili sono costretti in omaggio al decoro della famiglia, aveva concluso: "di qui avviene che a noi nobili nel tempo del carnasciale sono così care le maschere, potendo noi a voglia nostra trasformarci quando in facchino, quando in contadino, quando in altra più vil persona, gustando incredibil piacere nell'imitare parlando, andando ed operando i lor meccanici e licenziosi costumi. Allora ....proviamo quanta dolcezza sia l'andarsene soli, ora correndo, ora saltando, ora cantando, or ridendo, e il poter entrare in ogni luogo senza esser notati, e far ogni pazzia…". E perciò che non mancano anche a Cagliari lettere, diari, più tardi fotografie, che rivelano la grande passione dell'aristocrazia per la mascherata, la cui tradizione è pervenuta ininterrottamente sino ai nostri anni Settanta, anni di liberazione totale dalle convenzioni che hanno privato il carnevale "aristocratico" dei suoi più profondi significati, segnandone l'irrimediabile declino.
C'è da credere che il trasferimento della Corte a Cagliari abbia dato l'avvio alle manifestazioni di potere e di ricchezza che prima avevano avuto poca ragione di essere. Le relazioni con la Corte, che precedentemente avvenivano tramite il viceré o in occasione dei lunghi viaggi Torino dei feudatari e dei cadetti impiegati nell'esercito, si infittiscono. Le famiglie più illustri e abbienti si fanno avanti quando si tratta di ospitare il re e il suo seguito in casa propria e ne vengono ricambiate con incarichi di Corte, il cui lungo elenco è puntigliosamente riferito da Francesco d'Austria-Este, futuro duca di Modena. Cambiano le abitudini, le signore non escono più in portantina ma in carrozza e incominciano a masticare qualche parola di francese (ma forse in casa parlano ancora in spagnolo e in sardo).
La cucina casalinga, pur senza rinnegare la tradizione catalana, si adegua alla moda del momento e l'aristocrazia inizia a voler mostrare anche a tavola il decoro della propria famiglia. In effetti già l'ultimo quarto del Settecento ha visto un'aristocrazia pronta ad adeguarsi, nelle proprie abitudini, a quelle dei nuovi dominatori. Sarà che più forti sono i condizionamenti posti dall'assolutismo regio, sarà che si sentono vacillare i presupposti stessi del potere feudale ed è quindi necessario uno sforzo di avvicinamento alla monarchia sabauda, fatto sta che i ripetuti viaggi che i gentiluomini sardi fanno a Torino per il loro "servizio di Corte" o per altri affari producono anche un adeguamento dell'aristocrazia cagliaritana agli stili di vita della nobiltà piemontese. Lo si vede dagli acquisti di mobili, di argenteria, di gioielli, di "mode" dal Continente, e anche di libri che insegnano l'arte della cucina, dall'apparecchiatura della tavola alle preparazioni vere e proprie. Non è certo un caso che il barone di Sorso, il marchese di Laconi e il marchese di Villahermosa abbiano tutti in casa una copia de Il cuoco piemontese, che il marchese di Laconi abbia, fra le 19 persone che costituiscono il suo personale di servizio, un maestro di casa torinese, una governante savoiarda, una serva nizzarda e il barone di Sorso un cuoco dal nome significativo- Amedeo Motta- che gli costa un occhio della testa.
Nell'ultimo quarto del Settecento l'aristocrazia cagliaritana ha affinato le proprie armi per reggere al confronto con la nobiltà continentale e per avere parità di trattamento e di dignità. L'insperata presenza della Corte a Cagliari gratifica chi tanto ha lavorato e speso per migliorare la propria immagine e offre l'occasione di affermare e di mostrare, non più inutilmente ai soli parenti, il proprio status. E quale migliore presentazione di una tavola apparecchiata con dovizia di argenteria e con piatti "a fioretti della fabbrica del re di Napoli" (ne ha undici dozzine il barone di Sorso, oltre a 45 piatti di portata) o di porcellana inglese (19 dozzine) e di un menù complesso ed elaborato come quello del marchese di Laconi con "dindo alla dobba, pasticcio di pernici, piccioni in salsa di limone, spigola in bianco, porchetto, caponata, pollastre con pomi d'oro, fritture di volaglie, piccole impanate, bugnoli, gatò, budini, zabaione, giambon, biscottini di polenta, gelatina dolce, pan di Spagna"? E se sembra molto lontano il tempo in cui l'Anonimo piemontese scriveva: "Si li cavalieri che le Dame vanno in casa de' Piemontesi essendo invitati, ma non rendono ad essi la pariglia scusandosi non avere cuoco per poterli ben trattare. Il fatto però sta che non sono sul piede di dar a mangiare", poco attendibile, o comunque parziale, pare il giudizio di Francesco d'Austria-Este, che, pur soggiornando presso la Corte a Cagliari, scriveva: "i sardi in casa loro in famiglia quando non hanno forestieri mangiano (anche i Signori) cose ordinarie, non troppo ben cotte: molte paste…cane di manzo cotta dura, polli, del pesce, un arrosto di porco, e simili cose". Sarebbe valsa la pena di spendere tanto per cuochi, porcellane, argenteria e cristalleria per mangiare poi in modo così approssimativo e fare una figura tanto meschina con gli ospiti?
Evidentemente no se, solo dieci anni dopo, il marchese Charles de Saint-Severin potrà farsi dei feudatari sardi, almeno di quelli vicini alla Corte, un'opinione ben più lusinghiera: quanto ai signori feudatari che hanno frequentato la corte e vi hanno conservato dei posti che occupano periodicamente- scrive il marchese- non si può essere più ospitali, né più amabili di quanto essi siano, quando li si va a trovare nei loro feudi. Avendo io fatto una breve visita nell'interno dell'isola con due ufficiali dello stato maggiore del viceré, fummo ricevuti nelle case dei feudatari con testimonianze di benevolenza tali che non le potremo dimenticare. Per riconoscenza dobbiamo qui citare questi signori: erano i marchesi di Laconi, di san Tommaso, di Samassi e il barone di Sorso. All'interno di queste famiglie ci si poteva credere nel maniero di qualche signore proprietario agiato delle province del continente".
Assai significativo è il riferimento conclusivo del Saint-Severin alla famiglia dei feudatari che rivela, non casualmente, fra il signore francese ed i signori sardi, un'identità di sentire tipica del ceto sociale a cui appartengono. La rappresentazione del potere e della ricchezza, che si estrinseca nella vita di relazione, esorbita infatti dai singoli individui per trasmettersi, amplificandosi, alla famiglia. La famiglia infatti costituisce la struttura portante di una società incardinata ancora sui ceti e non sugli individui e che riconosce generalmente all'aristocrazia un ruolo di mediazione tra l'assolutismo monarchico e il popolo. Se la famiglia è dunque l'elemento centrale del pensiero aristocratico, le dinamiche familiari e i rapporti di potere tra i suoi membri rivestono una funzione essenziale nel rivelarne gli aspetti più o meno nascosti o palesi. David Sutherland non si è meravigliato del ruolo delle dame cagliaritane, quanto della loro spontaneità, della loro franchezza nei rapporti con gli uomini, anche forestieri. Più tardi, un altro ufficiale inglese, William Henry Smyth, in missione in Sardegna fra il 1823 ed il 1824, riprenderà il tema, notando che le signore ridono di cuore alle allusioni pesanti. In effetti la spontaneità delle donne, che si lasciano baciare ed abbracciare senza timore e, soprattutto, senza generare gelosia o gesti di insofferenza da parte degli uomini, connota in modo evidente la nostra aristocrazia. Il Sutherland la attribuisce giustamente alla mancanza di libertini (fenomeno sconosciuto a Cagliari) e all'essere ben noti i rapporti fra le persone. Si può certamente aggiungere, cosa che probabilmente sfuggiva al capitano inglese, che i rapporti fra uomini e donne dell'aristocrazia, e specialmente di quel segmento di nobiltà feudale di cui stiamo parlando, erano tali per essere quegli uomini e quelle donne in genere imparentati fra loro e per essere quelle donne, in relazione alle loro capacità giuridiche e culturali, in rapporto non subordinato rispetto agli uomini.
Storicamente le donne di questa casta hanno sempre svolto un ruolo di rilievo e non subalterno nell'incrementare il patrimonio familiare: il fatto stesso di poter essere titolari di feudi, di amministrare la propria dote, di aver la tutela dei figli minori in caso di vedovanza, ha loro concesso un ruolo di primo piano nell'amministrazione del patrimonio, rendendole pienamente capaci, anche culturalmente, di affermarlo sia in casa che fuori. Lettere, documenti contabili, contratti e, perché no?, le considerazioni degli stranieri dimostrano ampiamente la dignità raggiunta dalle donne della più alta aristocrazia locale. Si deve tuttavia sottolineare che tali potenzialità femminili si esprimono soprattutto tra le donne sposate, mentre il Settecento è ancora fortemente contrassegnato, a Cagliari come nel resto d'Italia, da un forte tasso di celibato, presupposto essenziale ad evitare frantumazioni e dispersioni ereditarie. La famiglia aristocratica- scrive Andrea Menzione- "travalicava la famiglia reale, vivente, e aveva, per così dire, profondità genealogica; agli occhi del capo di casa ne facevano parte idealmente gli illustri antenati come i rampolli a venire". In tale prospettiva trascendente, i singoli membri, compreso il capofamiglia, perdono la loro individualità per porsi come ponte fra le generazioni passate e quelle future a cui devono conservare e accrescere un patrimonio che non è solo economico, ma che ha in questo il fondamento essenziale. L'istituto del fedecommesso, dapprima solo tollerato rispetto al principio romano della legittima, che prevedeva la divisione in parti uguali dell'eredità, applicato al patrimonio feudale dà forma giuridica al concetto della profondità genealogica: il patrimonio non appartiene al possessore, tanto occasionale quanto transeunte, ma è destinato dalla sua origine ad essere tramandato alle future generazioni attraverso il rigido ordine della primogenitura e della trasmissione prima in linea maschile poi femminile.
Il principio, riportato da Francesco Vico, che "feuda indivisibilia sunt et in eis non succedunt filii pro indiviso, sed primogenitus tantum", in sostanza legittima il diseredamento dei cadetti che ottengono una percentuale sui frutti dei beni primogeniali surrogata alla legittima e una quota dei beni liberi. Di conseguenza i cadetti rinunciano, più o meno forzosamente, al matrimonio, senza per questo rinunciare ad incrementare la dignità della famiglia con il raggiungimento dei gradi più alti nella carriera ecclesiastica, nei quadri dell'esercito, nell'amministrazione dei conventi. La cultura del lignaggio, il senso dell'appartenenza, infatti, investe anche i cadetti della responsabilità di accrescere l'onore, la ricchezza, il potere della famiglia. Nella prospettiva del mantenimento e dell'accrescimento dello status, l'endogamia nelle famiglie dell'aristocrazia feudale cittadina è d'obbligo.
L'incremento del patrimonio feudale costituisce ancora un orizzonte economico senza alternative di rilievo: la rendita può variare da un anno all'altro, ma assicura un tenore di vita più che apprezzabile (alla fine del Settecento il barone di Sorso ricava dai feudi da 10 mila a 16 mila lire, il marchese di Laconi sino a 23 mila) e d'altronde manca a Cagliari quella grande borghesia mercantile e imprenditoriale i cui apporti potrebbero risolvere il declino di casate feudali sull'orlo del collasso economico. Dati i presupposti, il mercato matrimoniale si svolge in uno spazio ridottissimo, in quanto il fedecommesso, permettendo ad un solo ramo di espandersi, ha di fatto procurato l'estinzione delle famiglie. Non si espandono i rami secondari, ma non si espande nemmeno il ramo principale perché, come affermava Gaetano Filangieri, "un padre, che non può avere che un solo figlio che sia ricco, vorrebbe non averne che uno solo". Come si vede, il fenomeno non riguarda solo Cagliari, ma tutta l'Italia, dove già alla metà del Settecento si levano alte le voci degli intellettuali e dell'aristocrazia liberale che richiede la cessazione di un sistema socialmente dannoso, che frena la crescita demografica e la circolazione della ricchezza: Carlo Emanuele III cercherà di porvi rimedio con l'editto del 15 gennaio 1770, poi recepito nel Codice Feliciano.
Una sintesi di quanto si è detto finora, un esempio né isolato né, tantomeno in controtendenza, è rappresentato dalla storia e dalle vicende della linea dei baroni di Sorso della famiglia Amat. Il feudo di Romangia, comprendente Sorso e Sennori, entra nella casa Amat nell'ultimo quarto del Seicento, trasmesso a Pietro Amat de Liperi dalla madre Maddalena de Liperi Castelvì, già vedova e terza moglie di Giovanni Battista Amat e Font. Pietro Amat de Liperi all'età di nove anni è già promesso sposo della tredicenne Vittoria Petreto de Sena, erede del feudo di Olmedo: il padre di lei, Ignazio Petreto, si impegna a pagare il riscatto del feudo di Romangia, sequestrato a favore della vedova dell'ultimo barone, che deve ottenere la restituzione della dote; i due si sposeranno sette anni dopo (1674) e si trasferiranno da Alghero a Sassari. A Sassari vivono i loro discendenti Ignazio Amat Petreto, Pietro Amat Vico e Giuseppe Amat Malliano finchè questi sposa Speranza Vico Zapata, vedova e marchese di Soleminis e si trasferisce a Cagliari intorno al 1770, ben interpretando la necessità di tenere più stretti contatti, attraverso il viceré, con la monarchia sabauda. Dei fratelli del barone di Sorso Giuseppe Amat Malliano nessuno è sposato: due sono avviati alla carriera militare (entrambi saranno insigniti del collare dell'Annunziata), uno vive con il fratello primogenito, mentre le quattro sorelle hanno scelto - si fa per dire- la via del convento. A Cagliari nascono i tre figli di Giuseppe e Speranza: Pietro, che muore in giovane età, Eusebia e Teresa. Eusebia, che deve ereditare i feudi del padre e della madre, sposa nel 1789, a diciassette anni e, si noti, pochi mesi dopo la morte del fratello, il trentacinquenne Marchese di San Filippo Giovanni Amat Manca, anch'egli destinato ad ereditare dalla madre il marchesato d'Albis e baronie varie. Teresa sposerà più tardi il vedovo marchese di Trivigno Pasqua Pietro Vivaldi Zatrillas.
La storia mostra in fieri come il meccanismo d'accrescimento del patrimonio abbia avuto, come rovesci della medaglia, l'estinzione delle famiglie. Si estinguono le famiglie de Liperi, Petreto, Vico, e la linea originaria degli Amat di Sorso trova una sua continuità solo con la confluenza nella linea degli Amat di San Filippo. Si vede anche come il processo sia stato accelerato dalla rigida applicazione delle regole sul celibato e dalla scarsa fertilità dei primogeniti stessi. Volontaria o casuale? Il Settecento in effetti è il secolo in cui l'aristocrazia europea inizia a praticare il controllo volontario della fecondità. Alla base di questa scelta vi è certamente il problema, ben espresso da Gaetano Filangieri, del diseredamento dei cadetti, ma vi è anche un'intimizzazione progressiva dei rapporti fra i coniugi. La differenza di età diminuisce, mentre aumento la confidenza e l'affetto reciproci. Le donne contano effettivamente di più nella famiglia e i mariti, all cui volontà è affidato l'unico contraccettivo conosciuto, si sentono maggiormente responsabili dei rischi cui le mogli vanno incontro ad ogni gravidanza, ad ogni parto, ad ogni aborto. In assenza di studi statistici consolidati relativi a Cagliari, ci si può affidare per il Settecento a metodi deduttivi, sulla base di elementi comunemente adottati come indicati e descritti ampiamente nel bel libro di Marzio Barbagli Sotto lo stesso tetto. Si è detto della libertà delle donne di trattare amichevolmente con i forestieri, si è visto come le donne avessero la capacità giuridica di possedere ed amministrare i propri beni, si deduce dai matrimoni delle vedove, che certo non erano giovanissime, come la differenza d'età non fosse alla fine determinante nelle scelte matrimoniali. E, se si è accennato a casi di forte differenza di età (Francesca Manca, Eusebia Amat), si potrebbero fare molti esempi di sposi coetanei alle prime nozze. In un libro dei conti di Giuseppe Amat Malliano degli anni 1793-1796, questi più volte riporta il nome di sua moglie come la chiama nella quotidianità, Esperansa, e lei, accanto alle spese fatte per i viaggi del marito scrive tranquillamente "para el viage para Pepi", "pastas para Pepi"; non c'è spazio nel registro per formule pompose e distaccate del tipo "per il ritorno della marchesa" o "per il viaggio del barone". E ancora più significative sono le lettere del marchese di Laconi Ignazio Aymerich Brancifort a sua moglie (1781) che iniziano tutte con l'allocuzione "Querida mia" e si chiudono con la formula "tujo de corazon Ignacio". Come si potrebbe credere che fra Speranza e Pepi, fra Ignazio e Maddalena, non ci fosse un rapporto affettivo sotteso all'uso confidenziale del tu? Come pensare che tale rapporto non ponesse il problema di una pianificazione familiare che sottraesse le mogli ai rischi certi delle gravidanze (e degli aborti) e i figli nati- escluso il primogenito- ad un destino ugualmente e tristemente segnato dal celibato?
L'Ottocento, neo avaro, ci ha lasciato un documento di grande interesse, un censimento del 1825 della popolazione nobile residente nei quattro quartieri cittadini, divisa per famiglie. In Castello ritroviamo personaggi noti, l'ormai ultracinquantenne Francesca Manca Aymerich, vedova, col nipote Vittorio Amat di Villarios di cui è tutrice, le sue figlie Emanuela Amat di Villarios con suo marito Vincenzo Amat di san Filippo e i loro cinque figli (l'erede è quarto ed è ancora bambino), Caterina, vedova del barone di Teulada Enrico Sanjust con i suoi sette figli, e Adelaide, sposata con il marchese di san Sebastiano Carlo Quesada e madre di una bambina e, ancora, Ignazio Aymerich Zatrillas con la moglie Giovanna Ripoll e due figli, la marchesa Giovanna Carcassona e suo marito Tomaso Nin con tre figlie, Teresa Amat da sola. Ci sono i Lostia, i Nurra, i Simon, i Paliaccio, i Cadello, i Pes, i Cervello, gli Zapata e molti altri che non traggono rendite dai feudi, ma dalle professioni di giudici, di notai, militari, funzionari.
Sono 91 le famiglie nobili censite nel Castello (mentre vi sono 40 famiglie nobili nella Marina, 5 a Villanova, 15 a Stampace) per un totale di 335 persone. Il dato globale significativo è che le famiglie sono composte in media da 3,6 persone. L'analisi per numero di componenti fa rilevare che le famiglie composte da 1 a 4 persone costituiscono il 40 per cento del totale e le famiglie composte da 5 a 7 persone il 45 per cento; solo 2 famiglie (Sanjust-Amat e Turleti-Marcello) hanno 8 componenti, una sola famiglia (Pes-Vivaldi) ne ha 9, una sola (Zapata-Vivaldi) 10, una sola (Cao-Serralutzu) 12. Le famiglie Zapata e Cao, le più numerose, non sono però famiglie nucleari, composte dai soli genitori e figli, ma estese ad altri componenti (nonni, zii), così come un quarto circa delle famiglie di Castello.
Lo coppie "normali" non hanno dunque più di cinque figli, le "anormali" ne hanno sino ad un massimo di otto. Oltre al basso tasso di natalità, probabilmente ottenuto in questo periodo con l'abbandono del baliatico a favore dell'allattamento materno, il censimento evidenzia che le singole famiglie hanno una residenza loro propria, anche lontana - per quanto il Castello lo permetta- dai parenti. È una testimonianza importante dell'emancipazione delle coppie sposate rispetto alle famiglie d'origine, che conferma la tendenza, già individuata nel secolo precedente, all'intimità della famiglia aristocratica castellana, indicata principalmente dai rapporti affettivi fra i coniugi.
Dall'intimità di rapporti all'interno della coppia, l'intimità di rapporti con i figli si costruisce pian piano, già dalla nascita e senza badare a spese. "Le balie si tengono in casa" aveva scritto l'Anonimo piemontese: e, possiamo aggiungere, si tiene in casa anche il figlio della balia, e non solo per il periodo dell'allattamento. Così Pepi e Speranza Amat nel 1793 hanno ancora in casa la vecchia "dida" Grazia Manis e la più giovane "dida" Mariantonia Carta con la figlia Anna Rosa Congiu; Ignazio e Maddalena Aymerich nel 1788 tengono in casa la serva Vincenza Montis, cameriera della marchesa da 21 anni, cui "si permete- scrive il marchese- che…nella tavola (delle donne) mangi il suo figlio fratello di latte del mio primogenito". E quante spese per il maestro di cembalo, per il teatro, per il parrucchiere di Teresa Amat! Grande confidenza e grande libertà d'espressione nei confronti dei figli si rilevano ancora in questa lettera di Maria Teresa Pes, datata Torino 28 gennaio 1839, alla cognata di Cristina Aymerich: "Cara Cristina, spero che sarai ristabilita dal tuo abborto e preso sarai pronta incominciarne un altro ed ho già annunziato ai miei figli che zia Cristina li farà un cugino per divertirsi assieme e correre in giardino…".
Pochi esempi, ma significativi di un approccio affettuoso e partecipe nei confronti dei figli, nessuno escluso, che meglio si delinea nel contrasto con quello, esemplarmente estremistico, descritto dal coetaneo Giacomo Leopardi che scriveva di sua madre: "Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli… Considerava la bellezza una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti e deformi, ne ringraziava Dio non per eroismo, ma di tutta voglia. Non procurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi rinunziassero interamente alla vita nella loro prima gioventù…"
Nel 1839 è abolito in Sardegna l'istituto feudale e con esso vengono meno i presupposti che nel passato avevano determinato la formazione delle famiglie aristocratiche. La rivoluzione dei metodi di trasmissione del patrimonio comporta la necessità di un istruzione più completa e più efficace dei giovani che, infatti, in gran numero vengono avviati alle scuole torinesi, più severe ma anche più adatte a preparare le nuove classi dirigenti. Parte a nove anni Enrico Sanjust per frequentare l'Istituto dei fratelli delle Scuole Cristiane, dove già si trovavano i suoi cugini Casimiro De Magistris e Luigi Lovera di Maria, parte Ignazio Aymerich che in una lettera al padre esprimerà tutta la sua amarezza per dover constatare che i suoi compagni possiedono nozioni di base superiori alle sue. Nella famiglia l'effetto più immediato della rivoluzione avvenuta si nota nel matrimonio dei cadetti. Si assiste ad una corsa liberatoria verso il matrimonio e, di conseguenza, ad un'espansione consistente dei tutte le famiglie ex-feudali. Ciò che colpisce è che questa espansione determina poi un ampliamento quantitativo, ma non anche qualitativo, del mercato matrimoniale, che continua a praticarsi nell'ambito di poche famiglie e che anzi tende a restringersi nella seconda generazione postfeudale, dopo una qualche apertura verso la nobiltà piemontese della prima generazione. I ripetuti matrimoni tra cugini della metà dell'Ottocento dimostrano ulteriormente che i matrimoni settecenteschi, seppure "combinati" in funzione del mantenimento del sistema di potere familiare, non fossero del tutto "forzati". Essi rappresentavano certo il presupposto necessario per la sopravvivenza, a livello istituzionale, del potere aristocratico, ma anche la manifestazione di una comunanza di interessi e di affetti preparati da lunghe preparazioni infantili e adolescenziali o, comunque, da una comune educazione, anche sentimentale, che favoriva la costruzione di rapporti confidenziali e affettuosi all'interno della nuova famiglia.
Cosicché il fedecommesso, mentre altrove, in presenza di un mercato matrimoniale allargato, ha generato rapporti di distacco fra coniugi, e fra questi e i figli, in un mercato ristretto come il nostro, e in concomitanza con una più ampia capacità giuridica delle donne, non ha ostacolato la nascita della famiglia moderna.
La forte continuità che si rileva a Cagliari nella formazione della famiglia aristocratica si deve alla tendenza, molto evidente già nel Settecento, a quella intimità familiare che in realtà diverse dalla nostra ha avuto la possibilità di emergere solo nel secolo successivo. La tradizione endogamica di formazione della famiglia si perpetua nell'Ottocento non per autolesionistico conservatorismo, ma proprio perché all'interno delle famiglie si erano già dissolti, se mai vi erano stati, quei rapporti di rigida sottomissione al capofamiglia che, nella sfera politica, si configuravano, come scriveva Cesare Beccaria nell'aggiunta all'edizione originale (1766) del suo Dei delitti e delle pene, come rapporti fra uomini e schiavi: "Vi siano centomila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compreso il capo che le rappresenta: se l'associazione è fatta per famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottantamila schiavi; se l'associazione è di uomini, vi saranno centomila cittadini e nessuno schiavo".