La donna cagliaritana tra il ‘400 ed il ‘600

Premessa

Per donne cagliaritane ho inteso sia le nate ed allevate nei quattro quartieri della città (Castello, Stampace, Lapola o Marina, Villanova) che quelle ivi stabilmente domiciliate, di altra provenienza territoriale rappresentata, in genere, dall’interno dell’isola e dall’area iberica, meno dall’area italiana, dal nord e centro-africa e dal Levante, raramente dall’Oriente.
Inoltre, poiché le fonti hanno evidenziato comportamenti femminili sufficientemente omogenei per classi sociali, ho riunito le informazioni ricavate in quattro gruppi: le donne nobili e alto-borghesi, le donne borghesi, le donne del popolo, le donne-res.
In tali gruppi – suscettibili a mio giudizio di ulteriori frazionamenti a seguito di più approfondite indagini – l’omogeneità è maggiormente riscontrabile nelle rispettive fasce centrali, mentre ai margini estremi (superiore ed inferiore) sussistono casi molto distanti tra loro. Così, la figura della titolare del feudo, posta al limite superiore del primo gruppo, è più simile alla regina che alle donne alto-borghesi del limite inferiore dello stesso gruppo, a loro volta maggiormente simili alla donna borghese di livello più elevato, che alla titolare di feudo.
Le distinzioni di questo genere hanno sempre zone di confine labili e chiaroscurate, ma sono da mantenere quando – come in questo caso – scaturiscono dalla realtà documentale e non sono mera costruzione del ricercatore.

 

Le donne nobili ed alto-borghesi

Ho inserito in questo gruppo, oltre le nobili, le donne non titolate che vivevano nella loro stessa cerchia, costituite da madri, mogli, sorelle e figlie di alti ufficiali regi o municipali (procuratori reali, maestri razionali, vicari, giudici, etc.), di ricchi mercanti, di avvocati e di notai che avevano raggiunto posizioni di grande rilievo professionale (1). Infatti a Cagliari, specie nel ‘400, che fu un secolo di grandi trasformazioni sociali, il diaframma tra nobiltà e ricchezza era sottile, ed era frequente che la seconda fosse un veicolo per il passaggio alla prima e che consistenti travasi avvenissero dalla prima alla seconda.
E’ simbolico il caso di Violante Sanjust, nobile di stirpe catalana, figlia di Dalmazio signore di Villagreca e Furtei, che nella seconda metà del ‘400 era sposa del ricchissimo mercante sardo Giuliano Scamado (2), in un tempo in cui erano ancora in vigore le leggi antirazziali contro i sardi. Il loro figlio Giovanni diverrà dottore in leggi, acquisendo anche il cavalierato.
Per la maggioranza delle donne di questo gruppo, tutte libere, di origine iberica o sarda, la vita acquisiva un senso ed un significato con il matrimonio, ad eccezione di una minoranza che abbracciava lo stato monacale.
Tutta la loro vita, dalla nascita, era predisposta e finalizzata a questo scopo. Giuliano Scamado, nel 1460, dopo che la moglie Violante lo aveva reso padre di una seconda femmina, aggiunse un secondo codicillo al suo testamento disponendo ricchi lasciti per il mantenimento delle due bimbe, affinché fossero “be honradament collocadas in matrimoni”, prevedendo il loro matrimonio evento certo come la nascita.
I matrimoni venivano combinati tra le famiglie degli sposi e nell’ambito di un ristretto gruppo in cui circolavano sempre gli stessi nomi: Aragall, Aymerich, Asquer, Carroz, Castelvì, De Besora, Derill, Margens, Moncada, Montpalau, etc.. (3). La possibilità di non sposarsi per questa donna era puramente teorica, perché aveva molto da offrire: in genere una dote consistente, comunque sempre corroborata da una dote importante, da un clan influente, da un parentado che contava.
L’amore non era elemento essenziale al contratto nuziale, ma la donna di questo ceto non era destinata a viverne priva. Le affinità di nascita, di educazione e classe giocavano a favore di un buon rapporto tra questi coniugi, tra i quali erano possibili anche ardenti passioni come quella di Maria Manca Ledda per Salvatore (III) Aymerich, testimoniata da una lettera del settembre 1670 in cui la donna grida al suo sposo tutto il suo incontenibile amore “…aunque me muera, morire contenta por se en tus brasos (anche morissi, morirei contenta se fossi tra le tue braccia”, e ancora “… de ninguna cosa que a mis mas me importa tu vida que quanto aj en el mundo…Dios te me guarde vida de mi corason los años que jo te deseo (nessuna cosa mi importa di più al mondo quanto la tua vita…Dio ti guardi, vita mia del mio cuore, per tutto il tempo in cui io ti desidero”, e si firma “…quien mas te estima y te ama de corason y alma y desea verte mas que escriverte (colei che ti stima e ti ama col cuore e con l’anima e desidera vederti piuttosto che scriverti” (4).
Se l’amore coniugale non c’era, la donna d’alto lignaggio poteva con discrezione prendersi un amante, come fece Francesca Zatrillas, moglie di Agostino di Castelvì, marchese di Laconi, che intrecciò una relazione extraconiugale con Silvestro Aymerich, divenuto suo sposo in seconde nozze, dopo l’uccisione del marito avvenuta nel 1668 per motivi politici. La relazione, notoria e tollerata, fu oggetto di pubblica riprovazione solo quando fu addotta a motivazione dell’omicidio, che l’autorità regia aveva interesse a far passare per un delitto d’alcova, anziché politico.
La donna d’alto ceto era istruita: sapeva leggere, scrivere e far di conto bene, come attestano le testimonianze scritte di suo pugno giunte fino a noi (5). Aveva libri propri, distinti da quelli del marito: nell’inventario dei beni di Elena Bellit de Gualbes, redatto nel 1584, figurano diversi libri, tra cui alcuni di argomento filosofico; mentre in quello di Eleonora Simò del 1586 si annoverano l’Orlando innamorato, il Labirinto de amor, e altri simili; nel 1589, Felicia Barbarà Roca lasciò 22 libri alla sorella Violante suora dell’Immacolata Concezione, e nell’inventario dei beni di Clara Quensa Sixto dello stesso anno è compreso un “libre stampat de companya” (6).
Ma la sua educazione era principalmente rivolta al governo della famiglia e della casa che avrebbe assunto col matrimonio, diventandone domina, nel senso pieno del termine.
A lei era totalmente affidata, innanzitutto, la gestione economica della famiglia, che a quei tempi era molto allargata comprendendo oltre il marito ed i figli, ed eventuali parenti, i servi, gli schiavi, le balie e poi gli scrivani, i cavallanti, i cocchieri, etc.
Non era raro che, al momento del matrimonio, lo sposo facesse una donatio propter nuptias, pari in genere alla metà della dote e che gliene lasciasse l’esclusiva amministrazione (7), come era anche frequente che mariti, fratelli e figli nominassero mogli, sorelle e madri procuratrici ed amministratrici di patrimoni consistenti (8).
Esse gestivano anche affari in proprio e sapevano sostituirsi ai loro mariti nelle frequenti e lunghe assenze che li portavano fuori dalla Sardegna per questioni politiche, giudiziarie o per affari. Così, tra il 1528 e il 1542, Violante Quirant, prima moglie di Salvatore Aymerich, sbrigava gli affari economico-amministrativi della famiglia e ne teneva informato il marito durante le sue assenze. Allo stesso modo, Maria Margens, seconda figlia di Salvatore Aymerich, era donna capace di gestire autonomamente il patrimonio familiare e di esercitare la tutela sul figlio minorenne, senza intervento di procuratori. Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1563, condusse sino al 1568 in prima persona la notevole attività economico-patrimoniale della famiglia, comprendente anche il contado di Villamar e le ville di Gesturi e Tuili.
Non era raro neppure che, rimaste vedove, riuscissero a risanare le gestioni dissennate dei loro uomini. E’ il caso di donna Isabella Deledda Carrillo di Sassari che, dal 1596 al 1607, dopo la morte del marito, si occupò personalmente del patrimonio familiare, saldando i numerosi debiti contratti da lui.
Anche la casa, intesa come struttura muraria, era di loro stretta pertinenza. Nel 1548 donna Isabella Spano stipulò personalmente i contratti con i picapedres Tomaso Marras e Francesco Orrù, per l’esecuzione di importanti lavori nella propria casa, sita nel quartiere della Lapola, e le opere fatte a casa di donna M.Angela Castelvì nel 1595 vennero pagate dalla figlia donna Anna. Ma anche quando Antioco Noco, ricchissimo mercante cagliaritano, ristrutturò nel 1571 la sua grande casa sita “en lo carrer major” del Castello, e stipulò il relativo contratto col maestro muratore Antonio Pisano, la clausola iterata ad ogni, pur dettagliatissima, descrizione di opera da eseguire, era che la stessa non sarebbe stata pagata se non effettuata “conforme a la voluntat y content de la señora”, ingombrante moglie del Noco.
La donna era respoinsabile anche della salute della sua numerossisima famiglia. Dona Isabella Deledda Carrillo, negli anni 1593-1596, provvedeva all’acquisto dei medicinali occorrenti ai membri della sua famiglia, dei quali teneva una separata ed apposita contabilità; la stessa nel 1595 pagava un salario annuo di 18 lire al medico Giovanni Battista Charo, per assicurare assistenza continua a sè ed ai familiari. Anche in casa Aymerich, donna Maria Margens pagava nel 1563 le spese dei medicinali occorsi per una malattia del marito.
Una donna di questo ceto poteva permettersi parecchi lussi e comodità: frequenti erano le note che mercanti di stoffe, sarti e mobilieri le presentavano e che saldava per lo più personalmente. Vestiva bene (9) e probabilmente usava prodotti di bellezza; aveva molti gioielli in oro, argento, perle e pietre preziose e semipreziose, orologi, spesso regalatile dal marito in vita, o lasciatile per testamento.
Aveva il raro privilegio di non conoscere il lavoro fisico, che veniva svolto da mani prezzolate sui cui, però, svolgeva un’oculata vigilanza, di cui non si deve sottovalutare il peso, attesa l’ampiezza della famiglia nobile e alto-borghese d’allora.
Destinata ad innumerevoli gravidanze e aborti, anche perchè sposata giovanissima, soffriva spesso la perdita di figli neonati e nella prima infanzia. Violante Sanjust Scamado, quando partorì nel 1460 la seconda figlia, aveva già tre maschi adulti ed una serie di fillets premorti, sepolti nella Cattedrale di Cagliari, a cui per volontà del marito dovevano essere congiunte le sue spoglie.
Il loro allevamento non le pesava, perchè aveva molti aiuti: balie, serve, schiave in numero direttamente proporzionale al suo ceto e al suo rango. Nel 1459 Violante Scamado aveva 5 schiavi; nel 1612 Donna Maria d’Aragall y Cervellon, moglie del governatore Giacomo d’Aragall, aveva 7 schiavi.
Alla donna di questo ceto non mancavano gli svaghi. Musica, in genere, scambi di visite, feste per matrimoni e battesimi, solenni cerimonie religiose in Cattedrale e nelle belle chiese dei Conventi degli ordini mendicanti a cui, nel ’600, si aggiunse un po’ di teatro.
Era una donna che teneva in conto la religione. Aveva spesso un proprio confessore, cui usava fare lasciti testamentari in vesti, denaro ed immobili; possedeva rosari, immagini sacre, libri di devozione e se i mezzi glielo consentivano aveva una cappella privata che adornava con retabli e quadri a soggetto religioso.
La preoccupava la sorte del suo corpo e della sua anima, dopo la morte, e ad entrambi dedicava molte disposizioni del suo testamento. I lasciti erano destinati a definire il luogo della sua sepoltura e ad alleggerire la sua anima dal peso dei peccati, con donazioni a chiese e a monasteri e con celebrazioni di tridui e novenari a tutti i santi, tra cui l’immancabile S. Amatore, veneratissimo nel ‘400-‘500 a Cagliari.
Da viva faceva qualche opera di beneficienza, mentre non mancava di ricordare poveri ed istituti di ricovero nel suo testamento. La sua religiosità non le impediva, però, come si è visto, di tenere schiavi, anche cristiani. Non era contraria ad affrancarli, più a pagamento che gratis e, quando lo faceva, spesso er aper riparare torti di cui la sua coscienza sentiva il peso in articulo mortis.
La donna sposata dei secoli XV-XVII, se sopravviveva al marito, disponendo di propria dote consistente, si risposava con relativa facilità, qualunque ne fosse l’età e l’aspetto. Così accadde alla nobile Marchesia Guiso, vedova di Giuliano Congiu, che nel 1566 stipulò nuovi capitoli matrimoniali con il dottore in diritto Pietro Calabres, portando una ricca dote, vero obbiettivo del futuro sposo, che conferì una procura universale al fratello Antioco, mercante, per la sua riscossione, raccomandandogli di non trascurare di raccogliere il minimo bene.
La vedova Agostina Palla di Pauli Arborei, sposa in seconde nozze di Geronimo Blancafort di Cagliari, era tanto abbiente che nel 1588 poté fare donazione al figlio di primo letto Giovanni, che intendeva farsi prete, di quattro case, un orto, una vigna ed altri beni minori di sua personale proprietà.
Se non poteva o non voleva risposarsi, o comunque finché rimaneva vedova, viveva con dignità ed onore, svincolata da ogni controllo maschile, paterno e maritale, come vissero Bartomena (1441-1442), ed Aldonza de Besora (1455), Maria Margens Aymerich (1563-1568) ed Isabella Deledda Carrillo (1596-1607).
La rilevante posizione di questa donna nella famiglia aveva un riconoscimento sociale che si esprimeva nel rispetto e nel timore da cui era circondata. Era infatti una donna molto potente da cui dipendeva la sorte di servi, schiavi, dipendenti e familiari. Questo ruolo veniva espresso in lingua sarda con la parola meri che, sino a questo secolo, identificava la moglie e madre, padrona assoluta della casa e della famiglia, rispettata e temuta in pari misura.

Quanto ho detto finora è valido in linea di massima sia per la donna nobile sia per quella alto borghese; esiste, però, un’area di interessi che ho avuto modo di rilevare solo per le donne della nobiltà, non avendone trovata testimonianza per le altre.
La donna nobile si interessava infatti alla vita politica, soprattutto locale, divenendo anche la consigliera del marito, se ne godeva la fiducia. A ciò l’abituava probabilmente, sin dall’infanzia, l’analoga figura materna, nonché l’alto livello di istruzione ricevuto, testimoniato dalla forma, dal contenuto e dalla grafia delle lettere che ci ha lasciato.
Tra gli esempi più significativi è una corrispondenza tra Violante Quirant e Salvatore Aymerich negli anni 1539-1542, in cui la moglie informa il marito lontano degli avvenimenti politici di Cagliari e lo mette in guardia contro i falsi amici, di cui indica i nomi. Dal tono della corrispondenza è chiaro che la donna era conscia del suo ascendente e si ha la sensazione che il marito aspettasse con ansia queste informazioni, come da fonte fidata e sicura.
Questi casi non erano numerosissimi, e ristretti a donne di alto lignaggio come le Aymerich, le Carroz e le De Besora, apparentate con la Corte, che potevano permettersi di far impiccare chierici, di stringere patti con i loro vassalli e di violarli, e di partecipare ad intrighi politici che sfioravano il trono.
Esse sono certamente più vicine alla mitica figura di Eleonora, giudicessa di Arborea, che alla moglie del mercante Noco, ma rappresentano pur sempre uno dei tanti modi di vivere la propria vita delle donne cagliaritane del ‘400-‘600.

 

Le donne borghesi

In questo gruppo ho riunito le donne del ceto medio i cui uomini ricoprivano uffici regi o municipali minori (scrivani, portarii, etc.) o erano notai di condizione modesta, medici, musici, maestri di scuola, commercianti, farmacisti, o maestri d’arte quali fabbri, argentari, sarti, falegnami e simili. Si trattava di donne libere o di liberte, le prime sarde, iberiche o italiane, le seconde greche, nord o centro africane, levantine e, limitatamente al sec. XV, orientali (russe, circasse, tartare, ungare).
Per queste donne il matrimonio era il fatto centrale dell’esistenza, che realizzavano con maggiore difficoltà delle donne nobili, non avendo le loro disponibilità economiche. Anche la donna del ceto medio, infatti, per sposarsi doveva portare una dote, che le veniva costituita dalla famiglia: le possibilità di accasarsi erano per lei direttamente proporzionali alla consistenza di quella. Nel 1453, Sadia Mili, ebreo cagliaritano, dispose due legati di 800 lire ciascuno alle due figlie nubili; era, però, in facoltà della moglie aumentarli a 1000 lire ciascuno, se ciò fosse servito a facilitarne le nozze.
I matrimoni venivano combinati tra la famiglia della donna e lo sposo, anche tramite intermediari. Un peso consistente nelle trattative matrimoniali giocava la professione od il mestiere del padre e dei parenti maschi della donna, per la loro “ereditarietà” che non riguardava soltanto l’artigianato, ma anche il notariato ed i pubblici uffici, specie le scribaniae, spessissimo appaltate ai privati.
Appartenere ad una di queste famiglie, che costituivano l’ordito del tessuto sociale cagliaritano, il ceto medio che “tiene”, era una condizione non certo disprezzabile per la donna del ‘400-‘600.
Essa veniva allevata ed educata per il matrimonio; aveva almeno un minimo di istruzione e sapeva far di conto. Una volta sposata, su di lei, domina e meri incontrastata, ricadeva l’intera gestione della casa e della famiglia, sia che si trattasse di donna potens e governadora, quale Marzocha, moglie del ricco ebreo Sadia Mili, destinata ad amministrare un ingente patrimonio mobiliare, immobiliare ed umano (1453), che di donna modesta, quale l’innominata consorte del calafato Tomaso Picorull della Lapola (1571), ai cui ordini rispondeva solo la sparuta servetta dodicenne Giovanna Pugeddo.
Alla casa ed alla famiglia la donna borghese in genere si applicava direttamente e personalmente, e non solo in funzione organizzativa e di sorveglianza, come la donna del primo gruppo. In questa fatica aveva qualche aiuto: talvolta schiavi e balie, più frequentemente serve, che assumeva in genere ancora bambine, e che allevava insieme con i suoi figli. Viveva in abitazioni scomode e modeste, prive d’acqua, la cui condizione richiedeva l’impiego di notevoli energie muscolari.
Non poteva dedicare molto alla sua persona, e quindi aveva pochi e modesti gioielli ed un limitato numero di vestiti che rendeva alla moda con ritocchi ed aggiustamenti ingegnosi. Era donna di devozione, ed aveva qualche libro religioso; l’impensieriva la sorte del suo corpo e della sua anima dopo la morte e ad entrambe dedicava parte delle sue non sempre eccessive risorse.
Si occupava con sollecitudine dei propri figli, sia maschi che femmine; li allevava, li cresceva e cercava loro una sistemazione per la vita. Una delle poche occasioni che la portava dinnanzi al notaio era proprio la stipulazione del contratto dotale per le figlie e di apprendistato per i maschi, in gran parte avviati a professioni artigianali.
Limitata era invece la sua proiezione all’esterno dell’ambito familiare; finché il marito era vivo, la vediamo sempre un po’ in ombra dietro a lui o al suo fianco. Raramente faceva contratti da sola, sia perché il marito aveva poche occasioni di allontanarsi da Cagliari, sia perché la ridotta consistenza del patrimonio – spesso costituita dalla sola abitazione familiare – non lo richiedeva.
All’occorrenza padri, mariti e figli nominavano le loro donne procuratori ed amministratori, come fece nel 1571 il bottegaio della Lapola Giovanni Arenes che, dovendosi recare in Sicilia, nominò procuratore universale la madre Caterina Pitzolo. Non si trattava però di casi ricorrenti, e si ha l’impressione che la società non le vedesse appropriate in questo ruolo, se non costrette dalle circostanze. Da ciò non sarebbe esatto arguire che fosse una donna priva di risorse, ma solo che esse erano allo stato latente; latenza che cessava non appena la situazione lo richiedeva, quale ad esempio la morte del marito o la sua cattura da parte dei Barbareschi e la conseguente lunga prigionia. La donna assumeva allora le redini della famiglia e vendeva immobili, trattava affari, accendeva censi, etc., per sostenerla o per procurarsi il denaro necessario a riscattare il suo uomo.
Nessuna testimonianza ci parla dei suoi svaghi, ma è difficile pensare andassero al di là di scambi di visite, delle chiacchiere con le vicine, delle funzioni e delle feste religiose, e dei pochi spettacoli pubblici organizzati dalle autorità.
Sul piano affettivo, sembrerebbe che l’amore non dovesse far parte della sua vita: maritata per convenienza, era ristretta nei canoni di una rigida morale, che le costava caro violare, prevedendosi gravi pene non solo per l’adulterio, ma anche per il matrimonio non autorizzato dai genitori o parenti.
Tra le maglie dell’arida terminologia dei documenti è però possibile scorgere sentimenti coniugali profondi, specie in disposizioni testamentarie dove insolite aggettivazioni rompono lo schema formale dell’atto. E’ il caso di Giovanna Rull, moglie del calzolaio Andrea Crispo, da lui designata erede universale nel 1546, libera da ogni controllo e definita, al di fuori degli stereotipi formali, “carissima muller mia”.
Per quanto poco frequente, per la donna borghese non è da escludere del tutto neppure l’amore extraconiugale, come parrebbe potersi definire il sentimento “amor quem erga ipsum gero” che nel 1454 indusse Maria, moglie del sassarese Martino Ledda, a destinare un legato di 20 soldi al notaio Giovanni Garau, non nuovo a relazioni irregolari.
La donna borghese, se restava vedova, non si risposava facilmente, per motivi sui quali tornerò, e viveva da sola con una autonomia superiore a quella concessale dallo stato coniugale. Eleonora, sorella del famoso pittore Michele Cavaro, divenuta vedova, andò a vivere col fratello, pure vedovo. Poco tempo dopo, però, alla fine del 1556, Michele si trasferì a Bosa per lavoro, e vi si trattenne diversi anni. Ad Eleonora, rimasta sola, non solo affidò interamente l’allevamento e l’educazione delle figlie, ma chiese un cospicuo prestito per finanziare il suo viaggio.
La considerazione sociale era alta. Rispettata e stimata, era infatti la tipica moglie e madre, tutta famiglia e chiesa, che incarnava l’ideale della donna sposata del suo tempo ed il cui comportamento avveduto si esprimeva nella formula “administracio de bona muller e bona mare”.
Uno spazio peculiare, tra le donne borghesi, occupano le liberte, ex schiave di nazionalità africana o orientale che, riacquistata la libertà, rimanevano a vivere a Cagliari per loro scelta o per clausola dell’atto di affrancazione. Era raro che queste donne fossero povere, sia manomesse gratuitamente che a titolo oneroso. La liberazione gratuita avveniva o per spirito di carità o per riconoscenza o per rimorso, ed in tutti e tre i casi il padrone non si limitava a restituire alla schiava la condizione umana, ma provvedeva al suo futuro. L’autoriscatto, poi, presupponeva una buona disponibilità di mezzi da parte della schiava o dei suoi parenti, genitori, marito o fratelli, procuratasi col lavoro. In tutti e due i casi, la liberta aveva mezzi sufficienti per collocarsi nel ceto borghese, medio o basso che fosse.
Dai molti documenti che la riguardano, emerge una figura di donna più attiva ed emancipata della libera e capace di procurarsi un tenore di vita molto soddisfacente. La sua diversità razziale non era d’ostacolo al pieno inserimento nella vita di Cagliari, città portuale crogiolo di mille etnie, avvezza da sempre ai diversi. Era quindi normale gestire per lei affari, avere una casa propria, mobili, argenteria e, ormai cristiana, assumere serve bianche, cristiane e libere, che è quanto fanno a Cagliari, tra il ‘400 e il ‘500, Giuliana moglie di Jaquo, disponendo per dopo la sua morte lasciti ai poveri e la donazione della sua casa al canonico Giovanni Barberani e del mulino a chi la servirà; Caterina Dessì e Giovanna Simona, nominando loro procuratore l’avvocato Melchiorre Gamboa; Angela Fillol, assumendo Antonia Mainas asseminese di 8 anni come serva, ed agendo come esecutrice testamentaria della sorella Caterina de Ruecas, tra i cui beni figurano oggetti d’argento; e tante altre come loro.
Per la donna borghese, libera o liberta, è da porsi infine l’interrogativo se svolgesse o meno attività lavorativa. Non ho rinvenuto testimonianze esplicite in proposito, al di fuori del caso di un’usuraia di buona condizione sociale, sorella di un certo signor Carmona di Stampace che nel 1483 svolgeva tanto attivamente il suo ruolo, da esserne scomunicata.
Ho però l’impressione che le donne degli artigiani coadiuvassero i mariti nella loro attività, in posizione subordinata e non specializzata, e così le mogli dei negozianti, farmacisti, etc. In questo modo si capirebbe, ad esempio, la posizione di Maddalena Ferrer, moglie del farmacista Ludovico, che nel 1442, morto lui, sembra continuarne per qualche tempo la professione in quella farmacia cagliaritana che ella definisce “botigia mea”.
Le Ordinazioni dei Consiglieri di Cagliari ricordano anche le ostesse, le fornaie, le panettiere, etc., ma a mio giudizio si è fuori dal ceto borghese e si è già nella successiva categoria di donne.

 

La donna del popolo

In questa categoria ho posto le donne che appartenevano al gradino più basso della scala sociale cagliaritana, al di sotto del quale esistevano solo le schiave.
A differenza delle donne viste finora, la loro identificazione non può avvenire attraverso il lavoro degli uomini della famiglia, o perché non ne possedevano, essendo illegittime, o perché vivevano in modo peculiare il rapporto familiare.
Comunque, se avevano famiglia, padri, mariti e fratelli esercitavano i mestieri più umili e modesti: facchini, contadini, carrettieri, pescatori, artigiani non riusciti, e simili. Gran parte di queste donne, in genere sarde o iberiche, veniva dall’interno dell’isola: Assemini, Gerghi, Guasila, Mandas, Oristano, Quartu, Sanluri, Silius, Tortolì, Villacidro, Villanova, sono alcune delle tante provenienze indicate nei documenti.
Erano in genere prive di qualunque istruzione, nel senso più ampio del termine, spesso comprensivo anche di attività tipicamente femminili, quali ricamo, cucito, etc…
Per esse, più che per le stesse schiave, si poneva il problema della sopravvivenza, che non poteva venire risolto dalla famiglia col matrimonio, tutt’altro che facile da realizzare per la donna di questo tipo. Infatti, pur poverissima e senza una famiglia alle spalle, per sposarsi doveva portare una dote, modesta in assoluto, ma spesso al di sopra delle sue risorse economiche. Nessuna dote, nessun matrimonio, e l’alternativa era il concubinato ed il meretricio. Non a caso una delle opere di carità più commendevoli era ritenuta allora la costituzione di doti per le vergini povere, perché ciò significava salvarne l’anima, sottraendole alla strada (10).
Il matrimonio dovevano conquistarselo duramente, come duramente lottavano per la vita, che si assicuravano attraverso il lavoro. Esse sono le uniche donne libere che a Cagliari, tra il ‘400 e il ‘600, si mantenevano da sole svolgendo un lavoro retribuito alle dipendenze o a favore di terzi. Gran parte di loro andava a servizio. Le madri, e talvolta i padri, poverissimi a loro volta, le affidavano in tenera età, persino 3-5 anni, a famiglie borghesi che le allevavano, assicurandosene così la prestazione lavorativa, non appena in grado di svolgerla, cioè verso i 7-8 anni.
I contratti legavano questi criados ai padroni di media per 10-12 anni, con casi estremi di 5 e 22 anni; in cambio di un lavoro senza soste, venivano sottratte alla fame, in qualche modo vestite, non buttate fuori di casa se ammalate, ed alla fine ricevevano anche un modesto compenso in danaro e/o roba, con cui procurarsi un marito.
Questo destino era proprio delle numerose illegittime, cosiddette spurie, ed anche delle orfane borghesi, rimaste senza mezzi di fortuna. Per entrambe, era il padre di orfani municipale che provvedeva che provvedeva a sistemarle come serve presso le famiglie cagliaritane.
Un altro modesto canale di alimentazione della professione servile era costituito dalle figlie degli ex schiavi barbareschi non convertiti al cristianesimo che, ritornati alle loro terre, lasciavano a Cagliari i figli nati dopo l’affrancazione e che, come battezzati, sarebbero stati considerati infedeli nei paesi islamici. Questi bimbi venivano in genere affidati con regolare atto notarile dalla madre (o dai genitori) agli ex padroni che si impegnavano ad allevarli, ad accasare le femmine e ad avviare ad un mestiere i maschi. L’accordo, a termine o a tempo indeterminato, dava praticamente ai bambini la condizione di criados coinvolgendoli nell’andamento della famiglia a cui collaboravano col loro lavoro.
In questa condizione si trovarono, ad esempio, nel 1566, Giovannina di 5 anni, figlia dei liberti Barco e Maruga, affidata per 16 anni a Bartolomea e Giacomo Roca, ex padroni della madre, con l’impegno di allevarla e darle 50 lire quando si sposerà; e Giovanna di 9 anni, figlia della liberta Fatima de Carbonell, ex schiava di Angela e Giovanni Carbonell, affidata dalla madre a questi ultimi, insieme con la somma di 30 lire per le sue nozze.
Le più sane di queste bambine o fanciulle venivano assunte dalle famiglie nobili ed alto borghesi, dove la vita materiale era di tenore elevato, il loro lavoro diviso tra molte serve e schiave, ed il premio di fine lavoro consistente.
In queste case la serva non doveva spaccare legna, governare stalle, trarre l’acqua necessaria a tutti i bisogni familiari dalle fontane pubbliche, perché erano compiti riservati agli schiavi ed ai servi maschi; nelle case di più basso livello tutte queste ed ogni altra fatica materiale erano delle criadas.
Di qualunque livello fosse la famiglia, difficilmente le serve si sottraevano alle attenzioni del padrone e dei padroncini, che se le vedevano fiorire sotto gli occhi, entrando quelle impuberi nelle loro case. Nascevano quindi relazioni clandestine che, in una spirale di aborti, gravidanze, abbandono di spurii, portavano queste donne sempre più in basso, sino al meretricio di cui costituivano, e costituiranno anche nei secoli successivi, una delle maggiori fonti di alimentazione.
La prostituzione era infatti un’altra delle professioni con cui le donne di questo gruppo risolvevano, negli anni della giovinezza, il problema esistenziale. Cagliari era un porto molto attivo specie nel ‘400 e nel ‘500 e marinai e soldatesche vi erano di casa. Le prostitute erano così numerose da occupare un piccolo quartiere a sé attorno alla via dei Biscottai, in cui potevano liberamente esercitare il loro mestiere. Il meretricio era quindi un mercato di lavoro che non conosceva crisi, anche se assicurava una sistemazione precaria e temporanea. Da serva a prostituta il passo era breve, essendo la serva buona per tutti gli usi.
Nel 1455, Francesco di Salamanca si impegnò di fronte al notaio a pagare una penale di 100 ducati alla propria serva Caterina nel caso si congiungesse carnalmente con lei senza il suo consenso. E questa Caterina era una donna fortunata che veniva pagata per le sue prestazioni straordinarie.
Nel 1546, Battista Marxant, mercante savonese residente a Cagliari trasse dal quartiere delle prostitute la diciottenne Caterina de Saxo, per tenerla come serva per due anni. Dal testo non è chiaro se il mercante, che si dice mosso “de pura compassio” verso la fanciulla che per “desgracia y culpa sua anava mal per lo mon”, intendesse così procurarsi del personale di servizio a vile prezzo o una amante a buon mercato, o verisimilmente entrambe le cose.
Per altre serve il commercio carnale col padrone costituiva un’autentica fortuna, perché occasione per stringere con esso rapporti stabili e duraturi. È il caso di Benedetta, serva sarda del chirurgo barcellonese Rafaele Aguilar che, nel suo testamento del 1431, dettato in punto di morte, la nominò erede di ogni suo bene. Ed è anche quello della serva del materassaio Giovanni Plana, vedovo, da lui “tenguda en loch de muller”, che nel 1506 ottenne il riconoscimento testamentario per il figlio bastardo avuto dal Plana, al quale aveva strappato anche il sostentamento di un altro suo illegittimo.
Un rapporto assai profondo era anche quello tra il canonico Bernardo Solerii e la sua serva Giovanna Mata di Tortolì, alla quale egli lasciò, con testamento del 1430 e successive integrazioni codicillari, quasi tutto il suo consistente patrimonio.
A parte i casi di questo genere, del resto frequenti, il rapporto carnale col padrone poteva considerarsi fortunato anche se era fonte solo di generosa liquidazione. Buone liquidazioni chiudevano anche i non rari contratti di lavoro con padroni umani e coscienziosi, che tenevano in buona salute le loro serve e si preoccupavano di accasarle. Le vedove senza figli erano spesso padrone di questo genere ed entrare nelle loro case era una fortuna per le fanciulle povere del ‘400-‘600.
Il lavoro servile non era però l’unica risorsa delle popolane cagliaritane ed esistevano altri mestieri, logoranti e faticosi, a cui dedicarsi. Tra essi quelli di lavandaia, panettiera e tessitrice, poco citati nei documenti perché oggetto di contratti verbali, ma sui quali sussistono testimonianze alternative.
Le Ordinazioni dei Consiglieri di Cagliari dei secc. XIV e XV dedicano buono spazio a disciplinare le prestazioni delle lavaneras, sia familiari che artigianali, da cui si deduce quanto fosse diffusa quella dura professione, tutta femminile.
Anche la lavorazione del pane era un tipico lavoro femminile, tanto che una delle maschere tradizionali della città- che non ha l’equivalente maschile – sa panattera, prende nome da questo mestiere. L’esclusiva femminile risulta anche da alcuni provvedimenti seicenteschi, intesi ad impedire adulterazioni nel processo di panificazione, tutti rivolti alle panattare. Mestiere femminile era anche quello di custode dei bagni pubblici, che certamente impegnava un numero modesto di donne.
Altre donne svolgevano le professioni di fornaia, di tessitrice, di ostessa, di locandiera o il commercio di derrate al minuto che, al contrario, venivano esercitate anche dagli uomini. Tutti questi mestieri, anche se umili, non erano circondati dal disprezzo che bollava la servitù ed attribuivano alle donne che li esercitavano una considerazione sociale superiore a quella delle serve.
Tuttavia, se con il proprio lavoro, qualunque esso fosse, o attraverso la pubblica o privata carità, questa donna riusciva a mettere insieme il tanto per la dote, si sposava con facilità, trovando sempre l’uomo per il quale la sua dote era una manna.
Il matrimonio non poneva fine alla sua attività lavorativa ed anzi le schiudeva il mestiere ben ambito e remunerato della balia. Esso non era aperto a tutte, ma solo alle donne di ottima salute e di ottima moralità, disposte a notevoli sacrifici personali, posto che le balie dovevano trasferirsi nella casa dei padroni e non potevano avere rapporti sessuali durante l’allattamento, a pena di percorrere le vie della città incalzate dai colpi della sferza e di perdere quanto guadagnato sino allora.
Le balie fornivano le loro prestazioni di solito a famiglie nobili e borghesi, le cui donne non volevano o potevano allattare i figli. Nel 1589, i coniugi Fillol e Giovanna Carcassona stipularono con Anna Fanari, moglie di Antioco Porta, carrettiere di Villanova, un contratto di baliatico per l’allattamento del figlio che Giovanna portava in seno. La balia, o dida, si impegnava a nutrire ed allevare il piccolo, ed i coniugi a tenerla presso di loro, sana e malata, e a corrisponderle quanto in uso per le didas nella città di Cagliari. Ciò prova la diffusione del mestiere che aveva come datore di lavoro anche il Comune che retribuiva apposite balie per l’allevamento dei numerosi spuri, esposti alla pubblica carità.
La funzione di dida, rispettata e ben retribuita, era però il più precario dei lavori, essendo legato non solo all’età feconda, ma anche al suo buono stato di salute, difficile da mantenere con l’avanzare degli anni.
Per gran parte delle donne, quindi, il matrimonio non costituiva la soluzione definitiva del problema esistenziale, ma quanto meno dava loro rispetto e protezione, negati alla nubile. Se incappava in un uomo quanto meno passabile, tirava avanti alla meno peggio, allevando un nugolo di figli, ed ancor più perdendone nei primi mesi di vita, sottoposta ad un lavoro domestico massacrante – basta pensare all’approvvigionamento dell’acqua – facile bersaglio di malattie croniche, sino alla conclusione di un’esistenza che, tutto sommato, era lo standard per le masse di quell’epoca.
Parlare di svaghi, per una donna di questo genere, appare incongruo; comunque, non ho trovato testimonianza utile. E’ d’obbligo pensare alle funzioni religiose, agli spettacoli pubblici organizzati dalle autorità, meno a matrimoni, battesimi, etc. che dovevano trascorrere senza troppi festeggiamenti, e più alle chiacchiere presso le fontane pubbliche, dove si facevano lunghe attese per riempire le brocche d’acqua.
Per la donna del popolo restare vedova era una disgrazia. Senza beni, priva della protezione sociale e dell’aiuto economico del marito, si rimetteva a servizio o si piegava a fare i lavori più umili e faticosi per sopravvivere.
E così, nel 1571, mentre l’incontentabile moglie del ricco mercante Noco faceva impazzire i muratori con i suoi capricci, Antonia Manca, povera vedova di un contadino, si piegava per bisogno a purgarle il canale di scolo della casa da molte sue sozzure. La grande distanza tra queste due figure simboleggia gli estremi entro cui si racchiudeva la condizione femminile a Cagliari tra il ‘400 e il ‘600.
La conclusione della vita era, per la donna del popolo, difficile.
Esisteva indubbiamente una minoranza che riusciva ad assicurarsi una vecchiaia decente, o col frutto del suo lavoro personale o presso la casa dei padroni, ove aveva lavorato come serva o balia. Casi a sé erano quelli delle serve-concubine, destinatarie di legati ed eredità, che garantivano loro l’indipendenza economica.
La massa era invece destinata ad una misera fine. Sottoposta sin da bambina ad un lavoro sfibrante, minata dalla denutrizione e dal freddo, spesso malarica e tracomatosa, se non sifilitica, invecchiava precocemente, entrava presto a far parte della vasta categoria di indigenti che, a Cagliari, viveva di carità pubblica o privata.
Moriva quindi di stenti in qualche tugurio, o sulla pubblica strada, o nel tetro Ospedale di S.Antonio, ove la comunità parcheggiava gli indesiderabili.

 

Le donne – res

La presenza di schiavi a Cagliari è molto consistente sin dal sec. XIV. Nel ‘300 predominavano i greci e i mori; nel ‘400, venuti meno i primi, furono rimpiazzati dai russi, tartari, circassi ed ungari, cessati i quali, a partire dal ‘500, rimasero solo gli africani del nord e dell’interno ed i levantini.
Molti degli schiavi erano donne che arrivavano a Cagliari adolescenti o giovani, dai 18 ai 30 anni, e raramente di età più tarda, sino circa ai 35 anni.
Il loro impatto con la società cagliaritana era certo durissime, attese le profonde differenze culturali e razziali, a non voler considerare la tragedia umana di bimbe e fanciulle, strappate ad una vita familiare, fosse anche miserabile. A 13 anni, una giovinetta russa innominata, che aveva alle spalle una consistente trafila, se non di padroni, di mercati di schiavi, e che aveva percorso una strada lunga e dolorosa per giungere dalle sue steppe all’isola mediterranea, nel 1455 venne ceduta da Pietro Carusses, argentario del Castello di Cagliari, a Francesco Marinon, mercante dello stesso Castello, come una merce qualunque.
È difficile pensare alla sua sorte senza soffrire, come è doloroso leggere i verbali delle aste degli schiavi predati dalle navi cristiane armate in corsa, che si tenevano a Cagliari e dove le donne (e gi uomini) sono elencate come partite di merce. Né certo rallegra che un padre tenerissimo come Sadia Mili, per aiutare quella delle tre figlie, già sposata al momento in cui redasse il testamento, non trovò di meglio che regalarle una schiava, di cui avrebbe potuto disporre a suo totale piacimento.
Ma al di là di queste considerazioni e della tragedia che era in sé la schiavitù, si deve riconoscere che la vita degli schiavi a Cagliari non era durissima: rappresentavano infatti un capitale così ingente che nessun padrone correva il rischio di depauperarlo.
Con ciò non escludo a priori crudeltà ed angherie, ma non ne ho trovato traccia. I casi di violenza e di restrizione della libertà rinvenuti sono commessi a timore di fuga e, quindi, di perdite di capitale, se non a sadismo.
Nel 1566, Giovanni Selles di Cagliari teneva duramente incatenato il suo schiavo Massant, ma appena tre amici di questo diedero una cauzione di 60 ducati d’oro per la sua eventuale fuga, il padrone lo liberò subito dai ceppi in cui lo costringeva per timore di perderlo.
Misure di questo genere contro le schiave erano molto rare, perché rari erano anche i loro tentativi di fuga. Esse entravano, in genere, in famiglie molto abbienti, nobili od alto borghesi, o tutt’al più della media borghesia, per le quali costituivano uno status symbol. Avere molti schiavi e schiave erano indice di grande opulenza (11) e naturalmente più giovani, sani ed esotici erano, più erano costosi. Le schiave perciò venivano vestite, nutrite, curate se ammalate, ed adibite a lavori domestici non pesantissimi, riservati ai maschi. Ovviamente questo benessere era direttamente proporzionale a quello della famiglia: l’unica schiava posseduta dalla famiglia dell’artigiano stava molto peggio delle molte schiave possedute dalla famiglia nobile o mercantile, ma nessuna era maltrattata, finché giovane ed in buona salute.
Le schiave che rimanevano a Cagliari, se non vi arrivavano già cristiane, come avveniva spesso per le russe, si convertivano, ma non mancano i casi di barbaresche rimaste fedeli all’Islam. Ciò non impediva l’instaurarsi di buoni rapporti con il padrone sardo, abbastanza tollerante in questioni di fede, come prova l’usanza diffusa di affidare i propri figli battezzati agli ex padroni, da parte dei liberti non convertiti al cristianesimo, quando lasciavano Cagliari per ritornare ai paesi di origine, dove quelli sarebbero stati considerati degli infedeli.
Un altro elemento, in un certo senso positivo, del rapporto schiavo-padrone a Cagliari, era costituito dal permesso di svolgere lavoro retribuito a favore di terzi. Ciò consentiva a molti schiavi di formare un peculio sufficiente ad autoriscattarsi e riscattare mogli, sorelle e figli, e spesso ad impadronirsi delle tecniche di un lavoro artigianale col quale assicurarsi l’esistenza da liberi.
I padroni favorivano gli autoriscatti, perché il prezzo della libertà era generalmente più elevato del valore venale dello schiavo, ed anche le schiave, più di una volta, riuscivano a riscattarsi col loro lavoro, trasformandosi in quelle liberte attive ed emancipate di cui ho detto.
Queste considerazioni costituiscono, ovviamente, l’aspetto migliore della schiavitù che, specie per le donne, aveva risvolti abbietti. La schiava infatti era il trastullo sessuale del padrone, una sorta di naturale remedium concupiscentiae, docile, indifeso, sempre a portata di mano.
Ella era una cosa totalmente propria del padrone che se ne serviva per fini che appaiono quanto meno curiosi alla nostra mentalità: nel 1483, ad esempio, Manuel Milis di Cagliari, uomo pio e fervido credente, destinò parte del valore di una sua schiava a pagare i restauri della antica chiesa di San Saturnino, di cui condannava il deplorevole stato di rovina.
Le connessione delle schiave col sacro non si fermavano lì e gli stessi sacerdoti avevano schiave: nel 1482 i canonici Nicolò e Guglielmo Canyelles acquistarono una schiava negra di 16 anni circa, chiamata Laurenzia.
Come succedeva per le serve, talvolta la schiava trovava nei rapporti carnali col padrone la salvezza per sé ed i suoi bastardi. Così successe, ad esempio, alla piccola Annetta, schiava bianca di 4 anni, affrancata come la madre Giovanna dalla comune padrona Caterina de lo Frasso, perché Annetta era in realtà sua nipote, figlia della relazione del figlio Peroto con la schiava Giovanna.
Per quanto casi di questo genere non siano rari e frequenti fossero le manomissioni gratuite e gli autoriscatti, notevole era il numero delle schiave che rimanevano tali e che, invecchiando, erano destinate ad una misera sorte.
Divenute rapidamente indesiderabili ed invendibili per decadenza fisica, venivano sfruttate come forza lavoro, fino a che reggevano. Poi alcuni dei padroni se ne disfavano affrancandole gratuitamente o per prezzo modesto: molte manomissioni di schiave dai 40 anni in su nascondono questa realtà.
Altri padroni se le tenevano ma, cose e non esseri umani, spesso lesinavano loro cibo e vesti, e non potendo abbandonarle nella strada come res nullius, le lasciavano morire in casa, non esistendo neppure il rimedio dell’Ospedale di S.Antonio, gratuito per gli indigenti liberi ma non per gli schiavi sotto padrone.

 

Considerazioni generali e conclusioni

Esaurita l’analisi dei gruppi, vorrei concludere con una notazione, che ho tralasciato perché di carattere generale, sul sesso, che appare come l’unico elemento in qualche misura unificante le varie e differenti figure di donna esaminate.
Il sesso, infatti, sia inteso nel senso maggiormente apprezzato dalla società di allora di matrimonio, che nel senso più disprezzato di meretricio, era l’elemento su cui ruotava la vita di tutte le donne cagliaritane e che determinava la loro migliore o peggiore condizione di vita.
Sposa onorata o prostituta spregevole erano gli estremi in cui si racchiudeva la parabola della vita femminile quattro-seicentesca, ed entro i quali non era molto lo spazio per zone intermedie e chiaroscurate.
Il sesso era anche il limite continuamente posto all’autonomia della donna. La sua verginità, prima, e castità, poi, erano valori familiari, coniugali e sociali vigilati e custoditi da genitori, fratelli, mariti e dalla Chiesa. La verginità della sposa era anche un bene economico, con un prezzo legale, l’escreix, sorta di morgengàbe, pari alla metà (poi a un quarto) dell’importo della dote, che lo sposo era lieto di impegnarsi a pagare nel contratto matrimoniale e i genitori orgogliosi di pretendere. La castità della propria sposa era vissuta dal marito cagliaritano, specie nei sec. XV-XVI, come un diritto che sopravviveva alla sua morte corporale e del cui esercizio si garantiva attraverso condizioni ricattatorie. Le designazioni di erede e di levato a favore della moglie, infatti, venivano vincolate al mantenimento della condizione vedovile ed allo stato di castità; se la donna si risposava o prendeva un amante, i parenti del marito erano legittimati a succedere in sua voce.
Uomini di ogni ceto e di ogni religione ricorrevano a questo strumento per assicurarsi la fedeltà coniugale post mortem. Così fece ad esempio il più volte nominato Giuliano Scamado che, nelle disposizioni testamentarie dettate nel 1459-1460, provvide con larghezza alla moglie Violante, a condizione che rimanesse casta e senza marito.
In ben altra posizione sociale ed economica, la stessa condizione fu posta dal calafato Aeso Sarroch di Stampace che, nel 1443, designò la moglie Nicolita usufruttuario di ogni suo bene, se fosse rimasta “casta et sine viro”.
E così disposero Sadia Mili, ebreo cagliaritano, nei confronti della moglie Marzocco nel 1453, e Pietro Canyelles, nobile cagliaritano, nel 1479, nei confronti della moglie Martina, e tantissimi altri, prima e dopo di loro.
A metà del ‘500, Salvatore Aymerich, nominando erede universale la moglie Violante alla solita condizione, sottolineò che altrimenti essa sarebbe stata “desposehida e que no li sia donat res, ans torne al testament de son pare”.
Esistevano però anche uomini diversi, in cui l’affetto e la fiducia prevalevano sulla diffidenza, l’interesse ed i condizionamenti sociali. Così Taddeo de Quart, ricchissimo ed influente mercante, che nel 1451 lasciò alla moglie Giovanna una cospicua somma di denaro, libera da pesi e condizioni, riconoscente dell’amore e delle premure di lei. Così Guantino Manixella, agricoltore di Stampace, che nel 1453 lasciò vari beni alla moglie senza condizione “propter bonum amorem quem erga ipsam gero”. Così il già ricordato calzolaio Andrea Cristo, che nel 1456 lasciò sua erede universale, senza condizioni e limiti, la “carissima muller” sua Giovanna.
La donna, da parte sua, reagiva alla possessivitàmaritale – a cui non era estranea l’esigenza di impedire il passaggio dei propri beni all’asse familiare della moglie – con meccanismi di difesa che funzionavano soprattutto per le donne situate ai limiti opposti della scala sociale, le nobili e le popolane.
Le prime perché colte, ricche ed emancipate e perché protette da clans familiari che potevano imporre nuove alleanze matrimoniali o, al limite, coprire relazioni clandestine; le seconde, sia perché di una condizione ove i valori morali si allentavano davanti all’urgere del problema quotidiano della sopravvivenza, e sia perché sposate con uomini che avevano poco da lasciare loro.
Chi era disarmata di fronte al ricatto testamentario era la donna del ceto borghese, dove infatti vediamo abbondare le vedove. Modesta e svalutata la dote, il fascino personale irrimediabilmente intaccato dalle gravidanze e dall’età, non avrebbe potuto vivere senza i beni maritali. Essa, però, da sempre depositaria di ciò che per i tempi è considerato virtù, non sembrava patirne e viveva la sua vita sine viro serenamente e forse, in qualche caso, con liberazione.
Il sesso, poi, accomunava le donne di ogni ceto nella maternità. Gravidanze ed aborti innumerevoli, se non la morte per parto, non risparmiavano nessuna e poca differenza esisteva in questo senso tra la nobile e ricca Violante Sanjust, che riempì una vasta tomba di neonati premortile, e l’ultima lavandaia di Cagliari.
Il sesso era anche motivo di comune umiliazione. I documenti, specie notarili, abbondano di citazioni di illegittimi, figli di serve, di schiave o comunque di donne diverse dalla propria moglie, frutto di relazioni adulterine che gli uomini intrattenevano nella stessa casa coniugale, secondo un costume allora diffuso e tollerato.
Il notaio Giovanni Garau, uno degli uomini di maggior spicco del ‘400 cagliaritano, aveva una figlia, Audissa Ara, schiava del mercante Taddeo de Quart. Michele Cavaro, uno dei maggiori pittori del ’500 sardo, oltre i figli legittimi avuti dalla moglie, aveva una bastarda di nome Anna, natagli da una relazione con Geronima Carena.
Si è visto che il materassaio Giovanni Plana aveva avuto un bastardo da una serva e che Peroto de lo Frasso ebbe una figlia da una schiava della madre, ma l’elenco potrebbe andare avanti a lungo, tale era la frequenza di simili casi.
Le Ordinazioni punivano i rapporti sessuali con schiave, balie e serve del proprio padrone e stabilivano un risarcimento a carico di chi metteva incinta la schiava altrui, ma niente prescrivevano per il padrone legittimo.
La Chiesa era alleata delle mogli, ma il suo intervento era possibile solo quando era compromessa l’integrità della famiglia, come ad es. nel 1480, quando dure ammonizioni ecclesiastiche colpirono un gruppo di uomini di Iglesias che, abbandonate le mogli, vivevano scandalosamente con le loro concubine.
Lo stupro, l’adulterio e l’incesto venivano sanzionati con la scomunica, che niente però poteva contro la segreta umiliazione quotidiana del rapporto con la serva e la schiava, alla quale difficilmente si sottraevano anche le più superbe mogli di allora, anche se la loro sensibilità era certamente attutita dall’atavica sottomissione all’uomo, almeno in questo campo.
Considerando la cosa dalla parte della serva, della schiava o della concubina, il rapporto con il padrone e comunque extraconiugale era pur sempre clandestino e vergognoso, e spesso veniva vissuto dall’uomo con noncuranza e disprezzo. Esso, inoltre, era fomite d’astio da parte delle padrone che, verosimilmente, si vendicavano con piccole crudeltà ed angherie, e poneva sempre la serva – per la schiava il discorso è diverso – in quella degradante condizione di meretrice familiare, che le procurava il disprezzo di tutti.
Il sesso, infine, univa le donne in una sorta di complicità, una volta tanto né tragica né dolorosa, che potrebbe definirsi sexy o civetteria. E’ difficile trovare negli archivi testimonianze su questo genere di cose, ma è proprio una severa ammonizione ecclesiastica, preludio alla scomunica, a rivelarcela.
Nel 1480, imponendo la moda fianchi opulenti ed andature sinuose e sculettanti, le donne cagliaritane, per rimediare alle carenze naturali, avevano fatto ricorso ad ogni sorta di ingegnosi rinforzi. Pezzi di coltri, imbottiture di basti, giri di volanti attorcigliati più volte attorno ai fianchi, ogni marchingegno sotto le gonne era buono per realizzare le voluttuose rotondità. Ciò aveva determinato l’intervento della Chiesa e la conseguente richiesta a mariti e genitori di impedire il dilagare di tanta disonestà. Il malizioso stratagemma veniva, infatti, universalmente praticato da vergini e maritate che, verosimilmente devote e timorate di Dio, sapevano tranquillamente sfidare le ire della Chiesa e degli uomini, pur di non rinunciare all’eccitante schermaglia col maschio.
E’ solo un piccolo spiraglio aperto sulla femminilità segreta della donna del passato, ma il suo forte potere evocativo, sembra restituircela con la vivezza del presente.

Note:

  1. Un caso esemplare in questo senso è quello del notaio Giovanni Garau, attivo tra il 1441 ed il 1474, non nobile, che iniziò la sua carriera come semplice notaio, riuscendo ad inserirsi così bene nell’alta società cagliaritana, da essere nominato maestro razionale del regno di Sardegna e da poter stare alla pari col viceré Nicolò Carroz d’Arborea, come testimone alla stipulazione nel 1474 dei capitoli matrimoniali tra Isabella Aymerich e Luigi de Montpalau.
  2. Il caso non è unico. Nel 1581 la nobile Angela Ferrer, sorella di Giovanni, vicario generale di Cagliari, era moglie del maestro razionale Giacomo De Silva, di condizione borghese.
  3. ASC, Notai di Cagliari, atti sciolti. Vedi i cap. matr. tra Pasquale Bellit e Antonia Giovanna d’Aragall (1483), i capitoli tra Luigi di Montpalau e Isabella Aymerich (1474) e tra Antonio Luigi d’Aragall e Antonia Caça (1455). ASC, Archivio Aymerich, doc.1165: biglietto augurale per le nozze di Ignazio Aymerich con Maria Asquer (1683).
  4. ASC, Archivio Aymerich, doc.1123 (Cagliari, 2 maggio 1670). Dello stesso tenore il doc. 1124 (11 settembre 1670).
  5. Vedi ad esempio la numerosa corrispondenza delle donne della casata (Violante Aymerich, Maria Margens, etc.) in ASC, Archivio Aymerich, passim. V. anche lettera di Isabella Deledda alla madre, da Samassi, il 23 aprile 1622, e sottoscrizione autografa di Isabella Deledda Carrillo del 28 gennaio 1596 (ASC, Antico Archivio Regio, b.219, docc. 58 e 39) nonché di donna Antonia Camos del 1° febbraio 1588 (ASC, Notai di Cagliari, Atti legati, notaio M. Concu, vol. 437, c.65).
  6. Ibid., notaio G. Ordà, vol. 1559, cc 446 v-447, 601v; vol. 1558, cc. 108 e 83. Accade che la donna legga anche i libri del marito, come Geronima, vedova di Giacomo Lercaro, che “se dileta llegir” i 33 libri inclusi nell’inventario dei beni del defunto, redatto ad Alghero nel 1579 (Archivio di Stato di Sassari, Notaio Simon della Tappa di Alghero, b.65 n.22).
  7. Nel contratto nuziale d’Aragall-Caça è inclusa una donatio propter nutias di 4.000 lire di alfonsini minuti, pari alla metà della dote, che viene affidata all’amministrazione della sposa, senza interferenze del marito o di eventuali figli. Nei capitoli matrimoniali del 14 maggio 1571 tra Ferdinando Roger ed Apollonia Serra è prevista una donatio di 750 lire, pari alla metà della dote (ASC, Notai di Cagliari, Atti legati, notaio G. Ordà, vol. 1501, cc.57-59 v)
  8. V. ad esempio tra i tanti: nel 1455, Antonia Derill è procuratore del marito Francesco e Violante Carroz del Conte di Quirra, suo sposo (ASC, Notai di Cagliari, Atti sciolti, b.337, notaio G. Garau, n.2, cc. 170v e 201v); nello stesso anno Gerardo Dedoni affida l’amministrazione dei suoi feudi alla moglie Marchisia (ibid., c.147v); nel 1566, Giovanni De Cardona nomina la sorella Anna De Madrigal amministratore delle rendite e dei proventi del marchesato di Oristano e del contado del Goceano (ASC, Notai di Cagliari, atti legati, notaio M. De Silva, vol. 629, c.227).
  9. Gli elenchi e le descrizioni di vesti abbondano in testamenti, inventari e vendite all’asta. Si vedano gli inventari di Felicia Barbarà (1589) e di Adriana Nicolau (1589) in ASC, Notai di Cagliari, Atti legati, notaio G.Ordà, vol. 1558, cc.105 e ss., 113 e ss. Ibid. cc.599 e ss., il ricco guardaroba della moglie di Salvatore Zatrillas (1593).
  10. V. ad esempio il testamento di Masedo Meli, marcante di Villanova, che nel 1441 lascia 300 lire per opere di pietà, che sono la costituzione di doti per le orfane povere di Villanova ed il riscatto di cristiani, prigionieri degli infedeli. Presso la parrocchiale di Villanova, un certo Antioco Roqueta fondò nel XVI secolo un “obra pia para donzellas a maridar”, gestita dai sindaci del quartiere.
  11. Gli Atti Notarili e l’Antico archivio regio conservano migliaia di documenti che attestano questa realtà e che presi singolarmente non danno neppure lontanamente la dimensione del fenomeno. A titolo di esempio v. i casi di Violante Scamado Sanjust e di Maria d’Aragall y Cervellon, tra le donne del primo gruppo.