Il Marchesato di Busachi

I villaggi di Busachi e Allai, di Fordongianus e di Villanova Truscheddu, che dopo la seconda metà del XVIII secolo costituirono il Marchesato di Busachi, appartennero prima all’Incontrada di Barigadu Iossu, e insieme ai villaggi di Sorradile, Bidonì, Nugheddu, Neoneli, Ula, Ardauli, tutti nell’Incontrada di Barigadu Susu, formarono anticamente un feudo maggiore chiamato di Parte Barigadu.
La più antica infeudazione di cui si ha notizia risale all’anno 1417, quando alcuni villaggi del distretto furono concessi a Ludovico de Pontibus, in feudo retto e proprio, con diploma regio di Alfonso d’Aragona. Alla sua morte, mancando possibili successori, il feudo fu devoluto alla Corona.
La seconda infeudazione avvenne nel 1481 e ne beneficiò Gaspare Fabra, per mezzo del diploma del re Ferdinando; l’Incontrada fu concessa in feudo retto e proprio con giurisdizione, mero e misto imperio, con facoltà di alienarlo ad altri vassalli fedeli, ma con la proibizione di non dividerlo, né di unirlo ad altro feudo. Inoltre si dispensò il Fabra dal costume d’Italia, per permettere alla figlia di ereditare, con la clausola che, dopo la sua morte, sarebbe stata ripristinata la linea mascolina.
La figlia primogenita del feudatario Isabella, col consenso delle sorelle, dopo aver ottenuto dall’imperatore Carlo V d’Asburgo la conferma del privilegio paterno negli stessi termini della prima infeudazione, con diploma del 5 dicembre 1518, vendette il feudo a Don Carlo d’Alagon, con atto rogato a Cagliari il 5 ottobre 1519, al prezzo di novemila e cinquecento ducati d’oro.
In tal modo il feudo passò con le sue primitive caratteristiche a un nuovo vassallo, sebbene la transazione fosse avvenuto soltanto alla presenza del procuratore reale Don Carrillo che ricevette settecentotrenta ducati di laudemio. Quantunque non fosse comparso alla stipulazione dell’atto di vendita, era interessato nell’acquisto anche il nobile Nicolò Torresani, per la metà del feudo che fu diviso con approvazione dello stesso imperatore Carlo V in data 9 aprile 1520.
A Don Carlo d’Alagon spettò la parte superiore che perciò fu detta Barigadu susu, mentre i villaggi di Busachi, di Fordongianus e di Allai, denominati Parte Barigadu Iossu, passarono alla famiglia di Don Nicolò Torresani. Egli in seguito acquistò Sedilo e l’Incontrada di Canales, lasciando per testamento erede universale il figlio Don Geronimo, e designando come futuri successori i figli maschi che sarebbero nati, con dare la precedenza al primogenito; in assenza di maschi, anche la figlia primogenita sarebbe potuta succedere, con l’obbligo però di prendere le armi e il cognome e con la proibizione di alineare il feudo.
Alla morte di Don Nicolò, Don Geronimo Torresani fu investito dal Procuratore Reale di entrambi i feudi, e con diploma reale ottenne il titolo di conte di Sedilo per sé e per i suoi successori. Ormai avanzato negli anni, non avendo altri discendenti che una figlia, Donna Teresa, le fece donazione dei feudi, con atto del 1586. Don Geronimo volle ricorrere al Sovrano per ottenere anche l’approvazione della giurisdizione e del titolo di conte di Sedilo che si era riservato, insieme con altri diritti, vita natural durante; ma il Fisco si oppose in giudizio, ritenendo una simile richiesta lesiva degli interessi regi. Nacque una lite, che portata dinanzi al Supremo Consiglio d’Aragona, fu decisa con sentenza favorevole al feudatario il 25 novembre 1588.
L’anno seguente il Conte ottenne il diploma di approvazione, con le solite riserve “natura feudorum non mutata et salvis iuribus”, e con altre clausole, tra le quali quella per cui, in virtù dell’approvazione, non dovevano intendersi ammesse alla successione le figlie discendenti da Donna Teresa; e l’altra per cui la morte prematura della medesima, non doveva pregiudicare i diritti del Fisco o del padre che faceva atto di donazione dei feudi in suo favore.
Donna Teresa Torresani, sposata a Don Guglielmo Cervellon, morì prima del padre, non senza aver fatto testamento; in esso, seguendo le condizioni e le clausole del testamento dell’avo Don Nicolò Torresani, e le prescrizioni del padre, conte di Sedilo, chiamò alla successione nei feudi il suo primogenito Don Bernardino, quindi gli altri figli Don Giacomo, Don Michele, Don Antonio e Don Pietro.
Nello stesso anno anche Don Geronimo cessò di vivere dopo aver approvato le disposizioni lasciate dalla figlia in merito alla designazione dell’erede. Subito il Regio Fisco da una parte e la sorella del defunto conte di Sedilo dall’altra, contestarono l’investitura di Don Bernardino Cervellon, che soltanto con l’intervento del Procuratore Reale potè entrare nei suoi diritti nel 1599.
Nel 1628 ottenne l’investitura dei feudi di Parte Barigadu Iossu, di Sedilo e di Canales Don Geronimo II figlio di Don Bernardino Cervellon. Anch’egli, secondo la consuetudine, regolò la successione per testamento a favore dei suoi quattro figli maschi, in ordine di età; qualora essi fossero morti senza eredi, i feudi sarebbero passati ai figli maschi di suo fratello Don Bernardino Maria Cervellon.
Senza contrasti, osservandosi sempre la designazione ad erede del figlio maschio primogenito, si giunse al 1662, quando Don Geronimo IV Cervellon, non avendo figli, lasciò alla sorella Francesca tutti i suoi beni liberi, e nominò l’altra sorella Isabella erede universale.
Alla sua morte nel dicembre del 1682, Donna Isabella ne approfittò per impossessarsi dei feudi, ma il Fisco li sequestrò; sorse una lite, complicata dall’opposizione di Don Guglielmo Cervellon. Donna Isabella si appoggiava alle disposizioni testamentarie, pretendendo che ai feudi potessero accedere anche le donne; il Fisco li considerava devoluti, perché essendo stati concessi come propri e retti, erano venuti a mancare ora le condizioni necessarie per quel tipo di infeudazione; Don Guglielmo Cervellon li chiedeva per sé proprio perché essendo feudi concessi secondo il “mos Italiae”, egli si considerava erede legittimo, in quanto parente più vicino del defunto.
Mentre i tre contendevano innanzi alla Giunta creata da Carlo II d’Asburgo, la causa fu affidata alle decisioni del Supremo Consiglio d’Aragona, dove rimase sospesa per lungo tempo, perché col passaggio della Sardegna all’Austria, i rapporti con la Spagna furono interrotti e non si poterono riavere gli atti della vertenza.
Finalmente si giunse ad un accordo amichevole tra Donna Isabella Cervellon ed il cugino Don Bernardino Antonio Cervellon: questi, la sua linea e i suoi discendenti avrebbero posseduto il villaggio di Sedilo col titolo di Contea e l’Incontrada di Canales, e gli altri beni non feudali già appartenenti a Donna Isabella allora Marchesa d’Albis; in cambio ella avrebbe ottenuto la baronia di Austis, e la Contrada di Parte Barigadu Iossu comprendente le ville di Busachi, Allai, Fordongianus e Villa nova Truscheddu, con le rispettive giurisdizioni. Il contratto stipulato nel 1715 sanciva anche che, se una delle due linee si fosse estinta, l’altra sarebbe entrata in possesso della metà dei feudi così divisi; che si sarebbero dovuti dividere a metà i frutti dei feudi recuperati sin dal tempo del sequestro; che il contratto avrebbe avuto effetto soltanto se il Re l’avesse approvato a simili condizioni e, dopo aver costretto il Fisco a retrocedere da ogni pretesa, ne avesse investito i due contraenti, ciascuno nella sua parte; e infine che, se una delle parti avesse voluto impugnare il contratto, prima avrebbe dovuto depositare i frutti ricevuti dopo il possesso e ricompensare l’altra delle spese sostenute per la stipulazione del contratto.
Senonchè Donna Isabella morì prima che fosse emanata alcuna disposizione sulla transazione, e per giunta anche il figlio successore Don Pietro Guiso morì nel 1721 senza aver ottenuto l’approvazione sovrana. Nel suo testamento egli aveva designato come suoi eredi in ordine d’età i figli maschi, ammettendo però, in caso di morte di essi che anche le donne sarebbero state chiamate ad ereditare.
Perciò il figlio primogenito Don Antonio Giuseppe Guiso ricorse, insieme a Don Bernardino Antonio Cervellon, al re Vittorio Amedeo II affinchéil contratto del 1715 avesse valore legale. L’11 gennaio 1723 fu emanato un Regio Diploma nel quale si approvava il passaggio dell’Incontrada di Parte Barigadu Iossu con le ville di Busachi, d’Allai e di Fordongianus con le loro pertinenze, territori e giurisdizioni a “Donna Isabella Torresani-Cervellon Marchesa d’Albis, e suoi discendenti col peso di pagare scudi trenta annui al d.o. Marchese di Monte Mayor (Don Bernardino Antonio Cervellon) e suoi successori in perpetuo e colla recessione de’ medesimi feudi, ossia Ville in caso di estensione della linea discendente da detta Marchesa a favore di quella del fu Bernardino Mattio Avo di detto Bernardino Antonio…permanendo diti feudi secondo la loro primiera natura, e le leggi d’Italia e di Sardegna, sempre salve le ragioni del R.o fisco, e lo Invest.o conceduto a Gaspare Fabra primo acquisitore delle med.me, e suoi successori”.
Così la famiglia dei Guiso tenne il feudo fino al 1760, quando ottenne sentenza di investitura Don Giovanni Guiso, il quale designò come erede testamentario il figlio Don Raffaele avuto in seconde nozze da Donna Maria Francesca Zappatu, e in sua sostituzione, la figlia Donna Maddalena avuta in prime nozze.
Succedette, alla sua morte, senza contrasti Don Raffaele Manca (infatti così si chiamò lui e la sorella, tralasciando il cognome Guiso); ma non erano passati neanche due anni, quando egli morì in minore età, provocando l’inizio di un’altra lite. Il Fisco si impossessò dei feudi, dichiarandoli devoluti per l’estinzione della linea legittima; Donna Maddalena, in forza del testamento paterno, cercò di prenderne possesso, ma fu impedito dal Commissario Patrimoniale, e rinunciando alle sue ragioni, preferì accordarsi per via amichevole.
In seguito alla transazione col Regio Fisco, tra le altre proposte riguardanti la sistemazione dei vari feudi (Baronia di Austis, Baronia di Orosei, d’Ussana, etc.), Donna Maddalena, assistita dal marito Vincenzo di San Filippo, accettò quella di rinunciare a qualunque pretesa sul feudo di Parte Barigadu, che fu riconosciuto appartenente al Regio Patrimonio, con tutti i diritti ed effetti anche demaniali ed allodiali, coi frutti riscossi a partire dal giorno del sequestro.
Il re Vittorio Amedeo III approvò quanto convenuto con diploma del novembre del 1877, dando la possibilità a Donna Teresa Deliperi di Sassari di condurre a termine le trattative in corso già da un anno per l’acquisto del feudo di Busachi. Infatti ripresentò il suo progetto del 30 agosto 1789, con una aggiunta del gennaio 1790 e fu ordinato lo strumento il quale diceva testualmente: “…Primariamente il prefeto Sig. Avv. Fiscale Regio Conte di San Damiano a nome del Real Patrimonio del Regno di Sardegna… ha conceduto come concede in vista del presente giudicale instromento… all’Ill.ma Sig.a Contessa di Monteleone D.na M.T. Deliperi in feudo retto e proprio per sé e per i suoi discendenti maschi e femmine col titolo Marchionale di Busachi, l’Incontrada di Capu Barigadu Iossu situata nel capo di Cagliari composta dalle quattro ville denominate Busachi, Fordongianus, Allai, Villanova Truschedu con tutti gli effetti Reali, case, terre, selve peschiere e qualunque altra cosa demaniale connessa e colla giurisdizione civile e criminale, mero e misto imperio, e coi proventi ammessi o soliti sinora percevuti dalla Regia Azienda e dagli antecedenti feudatari e cogli stessi dritti, ragioni ed azioni che a questi ed al Real Patrimonio potevano e possono competere”.
Essendo D.M. Teresa senza prole, poteva disporre o in favore di suo fratello, o delle sue sorelle, dividendo anche i villaggi se fosse stato necessario, purché il titolo di Marchese fosse rimasto a chi possedeva la villa di Busachi. La successione doveva intendersi a favore dei maschi o delle femmine discendenti dal fratello o da quella delle sorelle a cui aveva lasciato il feudo, e rispettandosi il diritto di primogenitura. Tramite il sui procuratore, il Teologo Satta, la Contessa si obbligò a pagare alle Regie Finanze 66 mila scudi sardi, ossia 264 mila lire di Piemonte, di cui 30 mila non appena le fosse pervenuto il Regio Diploma di approvazione del contratto, e i rimanenti 36 mila in vent’anni, a rate non minori di 5 mila lire sarde, con gli interessi del 4% dal giorno in cui sborsati i 30 mila scudi, avrebbe cominciato a riscuotere i diritti del Marchesato. Inoltre assumeva su di sé tutti gli oneri connessi con l’amministrazione della giustizia, e poiché verteva una lite tra il Fisco e gli eredi dei precedenti possessori dell’Incontrada, a proposito di alcuni beni in essa compresi e che si consideravano allodiali, ella prometteva di renderli liberi, qualora venisse così giudicato, senza chiedere indennizzazione alcuna al Fisco, il quale si impegnava a sua volta ad assisterla nella lite per il presente e per il futuro.
Appena ricevuta l’investitura nel gennaio del 1791, quando fu citata davanti alla Reale Udienza da Donna Francesca Zappata e costretta a cedere come beni liberi alcune vigne e tanche delle sue ville, conservando soltanto un “nassargiu” e le case di Busachi. La causa durò a lungo e fu decisa definitivamente il 16 marzo del 1807 con sentenza della Reale Udienza. Nel frattempo la Marchesa fu citata dal Fisco il 18 agosto 1790 per aver tralasciato di pagare alle Regie Finanze le rate annuali e gli interessi del prezzo residuo del feudo. Ella presentò come giustificazione una relazione nella quale affermava che dal 1796 i redditi, di cui aveva goduto senza contrasto e senza subire diminuzione alcuna fino ad allora, a causa del rifiuto dei vassalli di corrispondere i tributi feudali negli anni del moto antifeudale, cominciarono a ridursi della metà e non bastarono, non che a pagare gli interessi annuali, neanche a far fronte alle spese. Alla relazione fece allegare anche un certificato dei Ministri di Giustizia. Ma l’Avvocato Fiscale Patrimoniale di quell’anno, Carta Bassu, rivelò l’insussistenza delle sue argomentazioni, facendo presente alla Marchesa che dalla denuncia dei diritti feudali risultava che i vassalli erano debitori di piccole somme; che i Comuni del suo feudo furono dichiarati esenti dal pagamento di alcuni diritti che in precedenza venivano invece esatti e che il Re nel Diploma concessole, le aveva infeudato quei diritti che potevano essere legittimamente dovuti dai vassalli.
Pertanto, non rilevandosi le condizioni per cui la feudataria dovesse rifiutarsi di pagare il debito, l’Ufficio Fiscale Patrimoniale la condannò a versare alle Finanze quanto doveva, mentre il feudo fu sottoposto ad un rigoroso sequestro. Ridotta in misere condizioni, senza mezzi per sussistere con la famiglia, anche a causa delle spese sostenute nella lite per il testamento del primo marito, la Marchesa presentò alla Regia Delegazione Economica una supplica per ottenere l’assegnazione di 2000 lire ogni anno per gli alimenti, da prelevarsi dai redditi del suo feudo sequestrato, facendo notare che nonostante questa detrazione annua a partire dal 1800, il suo debito derivante dagli interessi arretrati sul residuo capitale di scudi 66.000 sarebbe rimasto estinto fino al 1800. Inviò una copia della supplica anche al Viceré di Sardegna il 3 Dicembre 1800 e la causa fu sospesa il 13 dello stesso mese, quando il Viceré le accordò una dilazione nel pagamento delle pensioni dovuto alle Regie Finanze, mentre il Marchese di Busachi, in qualità di Procuratore di sua moglie, si impegnava a rispettare le nuove condizioni. Ma, col passare degli anni, la situazione si aggravò: sino al 1807, secondo i calcoli dell’Intendenza Generale, rilevato dall’Ufficio Patrimoniale Regio Generale, l’ammontare del debito compresa la pensione dell’anno citato e gli arretrati precedenti, ascendeva a lire 13110.19,9. Pertanto le Finanze erano in diritto di pretendere la cessione degli interi redditi feudali, per estinguere quanto prima il pagamento dovuto. Ancora una volta però si tennero presenti le difficili condizioni in cui la Marchesa di Busachi era venuta a trovarsi a causa delle ben note vicissitudini della sua famiglia; e l’Avvocato Fiscale Regio Patrimoniale Fancello, rispondendo alla sua supplica, l’assicurò che avrebbe goduto dei benefici della legge, mediante l’assegnazione della somma annua di L.1000 sui frutti del suo feudo sequestrato, senza che il Fisco avesse a subirne danno; infatti entro pochi anni sarebbe scaduto il termine prefisso al saldo del residuo capitale, ed esso, qualora la Marchesa non avesse adempiuto all’intero pagamento, sarebbe stato in grado di far valere meglio i suoi diritti, adottando le misure più consone per difendere gli interessi regi.
Trascorsero altri tre anni di inadempienza finché, ormai scoraggiata, Donna M. Teresa si rivolse direttamente al re Vittorio Emanuele I per ottenere il condono di scudi 34.500 da pagare a saldo delle finanze di scudi 66.000 cioè il prezzo dell’infeudazione, più gli interessi dovuti sul residuo capitale, offrendo la retrocessione dei villaggi di Fordongianus e di Villanova Truschedu.
Il Re, prendendo in esame le condizioni secondo le quali il feudo di Busachi era stato concesso e rilevando che il prezzo di 66.000 scudi calcolato in base al reddito del solo anno 1788, durante il quale esso era sotto sequestro, non era per niente equativo, fece fare un nuovo calcolo del reddito medio del triennio 1788-89-90, e ne abbassò il prezzo a 59.400 scudi. Inoltre riconobbe giusto detrarre dal capitale la somma corrispondente ai redditi che erano stati tolti alla feudataria da una decisione della Regia Delegazione nel 1801, successiva ad un’altra della Reale Udienza del 1782, perché a suo parere tali diritti non erano stati introdotti abusivamente dalla Ricorrente Marchesa, ma dai precedenti feudatari, ed erano stati esatti anche dal Regio Patrimonio negli anni in cui il feudo era sotto sequestro, e perché erano specificamente e nei particolari contemplati nel calcolo del valore del feudo, e nello stesso stato delle rendite, unito agli atti d’investitura. Tenendo anche in considerazione che la Ricorrente, nonostante la perdita di cui aveva sofferto, non aveva fatto ricorso a vie legali, ma in privato si era rivolta alla magnanimità del Sovrano, egli ritenne giusto dedurre appunto dal capitaledi 59.000 scudi altri 10.400 che aggiunti alla somma pagata di 31.500, riduceva il debito a soli 17.500 scudi, in cambio dei quali accettava la retrocessione dei due villaggi, a patto che la feudataria pagasse immediatamente 3200 scudi, perché il reddito annuo dei due villaggi corrispondeva al capitale di soli scudi 14.300, in base a quanto resero nel triennio del sequestro.
Sempre per le medesime considerazioni, il Sovrano le condonò anche gli interessi, e riconobbe a lei e ai suoi successori in infinitum secondo l’investitura i villaggi di Busachi e di Allai, colla dignità marchionale, facendo rogare dall’Ufficio dell’Intendenza Generale l’opportuno strumento, nella forma prescritta, liberandola per il futuro da ogni molestia da parte del Fisco.
In tal modo rimasta con due soli villaggi, Donna M.Teresa Deliperi alla sua morte li lasciò in eredità alla figlia Donna Stefania Ledà, natale in seconde nozze con Don Stefano Ledà.
Il conte di San Placido Don Andrea Manca, dopo aver sposato la nuova Marchesa di Busachi, volle ricongiungere nella stessa famiglia l’Incontrada di Parte Barigadu Iossu e chiese al Re Carlo Felice l’investitura dei due villaggi retrocessi di Fordongianus e di Villanova Truschedu. Lo strumento fu stipulato con Carta Reale del 1829 e alle solite condizioni: che il feudo si concedeva come retto e proprio per il Conte e per i suoi discendenti maschi e femmine, etc, che il prezzo di 8.000 lire sarde era pagabile in otto rate annuali con gli interessi della mora del 5%; che il Concessionario si assumesse tutti i pesi connessi all’amministrazione della giustizia, etc.
L’anno seguente il Conte prese possesso della Contea per mano del Regio Patrimonio.

Le condizioni del feudo nell’ultimo decennio del 1700

L’acquisto del feudo di Busachi da parte della marchesa Maria Teresa Deliberi di Monteleone, concluso il 14 luglio 1790, coincise con un periodo storico molto difficile per quanto riguarda i rapporti tra feudatari e vassalli. Di lì a tre anni infatti, dopo un lungo passato di miseria e oppressione, di privazioni, di stenti, di abusi, i vassalli insorsero contro la classe dei feudatari che li aveva angariati. Questa volta non si trattò di casi isolati di ribellione, ma di attentati coscienti alla proprietà, che cominciati a manifestarsi nella parte settentrionale dell’isola si estesero in vari focolai, che furono domati nel sangue.
Ancora prima del 1793 le precarie condizioni economiche ormai intollerabili avevano provocato dei fenomeni di reazione antifeudale, non molto lontano dalla stessa città di Cagliari, e il Viceré non aveva trovato di meglio che ordinare che si esigessero con la forza i diritti baronali non controversi.
Ciò succedeva nel 1784, quindi ancor prima che in Francia si radunassero gli Stati Generali i quali sancirono l’inizio ufficiale della lotta contro le antiche strutture di tutta la società europea. In Sardegna, il popolo, vessato dalle gravezze baronali, cominciava a rifiutarsi di pagare i diritti feudali. Da allora in poi il governo di Cagliari doveva inviare le truppe miliziane nei villaggi del Campidano, nel periodo della riscossione dei molteplici tributi. Nel 1789, due ville del feudo del Marchese di Arcais, Solanas e Donigala, reagirono violentemente e tumultuosamente contro i soldati del reggimento di Sardegna, l’una a mano armata, l’altra non acconsentendo alle esazioni. I capi della rivolta furono arrestati e condannati a dieci, cinque e tre anni di galera.
Quasi contemporaneamente, nel Capo settentrionale, si verificava un fatto analogo e a farne le spese fu il parroco di Chiesi, il teologo Antioco Sanna, che per aver fatto celebrare dei riti funebri ad implorare le anime dei morti contro le vessazioni del duca dell’Asinara e del suo degno Ministro di Giustizia, che gli aveva sequestrato il grano sull’aia, fu processato per ribellione dal Tribunale Supremo della Reale Udienza e privato del beneficio.
Da questo episodio di ribellione si può chiaramente capire come il basso clero aizzasse i vassalli contro il sistema feudale, mentre gli alti prelati se ne facevano i paladini. Nonostante la repressione, il malcontento non cessava, perché i feudatari inasprirono i gravami e le prestazioni, contro le stesse raccomandazioni del Viceré e della Corte di Torino. Le agitazioni si estendevano, ma si contenevano in forme legali a causa delle severissime pene comminate ai rivoltosi.
Nel luglio del 1793, cominciarono a pervenire al Viceré i ricorsi da parte dei Consigli Comunitativi dei villaggi di Ittiri ed Uri, contro gli aggravi e gli arbitri nell’amministrazione della giustizia. Elemento di un certo interesse, in questi ricorsi veniva denunciata anche la mancanza di scuole pubbliche per l’istruzione del popolo.
Ma, che cosa poteva rispondere un governo assoluto a una simile vibrata richiesta?Con un no alla cultura, perché l’elevazione intellettuale poteva minare alla base l’impalcatura assolutistica. Se riforme vi furono, si trattò di riforme di stretto carattere burocratico, funzionali ad un assolutismo certamente non innovatore.
La richiesta di un’elevazione culturale del popolo non deve far pensare alla presenza, in seno ai Consigli Comunitativi, di idee altamente rivoluzionarie, mutuate magari dai programmi ottantanoveschi della Francia repubblicana. L’esito e le modalità dei moti antifeudali del 1793 rivelano un carattere più elementare; le popolazioni insorgevano soprattutto per le eccessive vessazioni ed arroganze dei feudatari, non perché avessero coscienza della necessità di un radicale cambiamento del sistema. Tali moti, certamente antifeudali, furono provocati più che dal sistema, dall’abuso del sistema. D’altra parte, lo stesso atteggiamento del governo di Torino riconosceva l’anormalità della situazione feudale in Sardegna e la caratteristica non catastrofica dei moti. Il Viceré Vidalda riconosce che “le popolazioni non senza qualche ragione, gridano contro l’oppressione e gli aggravi”.
La propaganda antifeudale diede comunque presto i suoi frutti. L’agitazione contro i feudatari dilagò infatti, oltreché in tutto il Settentrione dell’Isola, anche nel feudo di Busachi dove, forse per diretto influsso delle rivolte di Ittiri, i vassalli si rifiutarono di corrispondere i diritti feudali nell’anno 1795, protestando contro l’ingiusto sistema tributario che opprimeva i vassalli nei loro beni e nelle loro attività.
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* Tratto da “Quaderni bolotanesi” n. 15, Anno 1989