Il Feudo della Planargia

Questo feudo, composto dalle terre di Tresnuraghes, Tinnura, Modolo, Sagama, Sindia e Magomadas, fu dato in principio insieme con la città di Bosa ed il suo castello. Don Ignazio Paliacio, nel suo ricorso al sovrano Carlo Emanuele, inserito nel diploma del 28 giugno 1758, suppone che la prima infeudazione fosse seguita fin dal 1323. Non avendone però dato alcuna prova convincente, sembra più prudente non attribuire al feudo un’origine tanto antica, e di attenersi alla guida della storia feudale ed ai pochi documenti che si poterono rinvenire negli archivi.
Secondo la predetta storia, il primo concessionario fu Don Giovanni di Villamarì, che nel 1468 ebbe in feudo dal Re Don Giovanni d’Aragona non solo la città con il castello e con la sua regione, ma anche i porti e caricatori coi diritti di introduzione e di estrazione.
Quest’atto di infeudazione fu confermato poi in Toledo il 24 dicembre del 1479; indi, con diploma del 13 febbraio 1488 fu data al feudo la qualità di allodio. Il che si suppone risultare da altro diploma di conferma del 18 luglio 1502, con cui il Re Ferdinando impose silenzio al Regio Fisco nella lite contro Don Bernardo di Villamarì, nipote e successore di Don Giovanni, sulla pertinenza dei detti diritti di importazione e di estrazione.
Succedette a Don Bernardo la figlia Donna Isabella, moglie del Principe di Salerno, la quale, molestata anche lei dal Fisco per la pesca ed il commercio di coralli, si guarentì con altro diploma, spedito in suo favore il 14 settembre 1519 dall’allora regnante sovrano, e poi imperatore, Carlo V.
In virtù di siffatti diplomi, e della sanzione del 30 settembre 1499 del Re Ferdinando che aveva derogato alla privativa di commercio, vigente dal tempo dei marchesi di Oristano tra certe determinate contrade, vennero spedite, in data 20 dello stesso mese, altre lettere regie in favore della stessa Donna Isabella.
Era con le medesime comandato alla città di Oristano di restituire vari carri col corrispettivo carico di cuoi e formaggi, già confiscati, perché si conducevano alla dogana di Bosa, e si confermava a questa città il privilegio di libero commercio.
Donna Isabella, venuta a morte senza prole, dispose del feudo in favore di Donna Maria di Cardona, contessa della Padula; e costei, essendosi poi trovata nella stessa condizione, ne dispose a favore del Duca di Alcalà, Don Pietro Affam de Ribera, istituendolo suo erede universale.
Informato Don Pietro dello stato dell’eredità, la ripudiò espressamente con istrumento del 25 maggio 1563, rogato in Napoli, dove egli era viceré per il Re di Spagna.
Il Re aveva con ordine del 25 ottobre 1559 comandato il sequestro del feudo, e il sequestro era stato eseguito dopo risoluzione dei ministri presa il 19 del mese di novembre.
Datosi perciò un curatore all’eredità giacente sulle istanze dei creditori, costui vendette il feudo al Re Filippo II al prezzo di centomila scudi casigliani, con istrumento rogato in Madrid il 22 marzo 1565.
Con quest’atto si obbligava il Sovrano a pagare ai creditori ereditari 50 mila scudi in contanti, e per il resto del prezzo a dare annualmente le pensioni dei censi capitali, precedentemente imposti, e a soddisfare per gli altri carichi annessi al feudo.
Dopo questo, il Re ordinava, con sue regie lettere dell’8 aprile, al suo procuratore reale Don Alessio Nin di prenderne possesso, come fu fatto nel gennaio 1566, e di sopprimere l’impiego di governatore della città di Bosa, surrogandovi un podestà, dal quale si appellerebbe al governatore del Logudoro; nonché di indennizzare i possessori di quegli altri offici già venduti che fosse conveniente rivendicare.
Non potendo però la Planargia stare perpetuamente così unita con la città di Bosa in potere della corona, il Re Filippo IV fu costretto, per gli urgenti bisogni della guerra d’Italia, ad ordinarne con replicate lettere (4 novembre 1628, 8 gennaio, 11 marzo, 9 ottobre) la vendita ed il distacco al suo viceré Don Geronimo Pimentel, Marchese di Bajona, previo solamente il consulto della Reale Udienza e della giunta patrimoniale.
Posta dunque all’incanto la Planargia, fu deliberata per atto, rogato Vacca, in Cagliari lì 5 dicembre 1629 a Donna Elena Gualbes, come procuratrice del marito Don Antonio Brondo, Marchese di Villacidro, nel prezzo di lire 182081, alle seguenti condizioni:

  1. che l’Incontrada passasse nell’acquisitore, nei suoi eredi e successori, e in chi egli vorrebbe con tutti i diritti, col mero e misto imperio, in franco e libero allodio, sotto obbligo dell’evizione per parte della R. Corona;
  2. che il principe Doria rinunziasse al diritto di ipoteca sulla Planargia, costituitagli in sicurezza dell’evizione per la Barbagia Belvì, precedentemente vendutagli dalla stessa R.Corona;
  3. che esso compratore avesse a carico le lire 81876.13.4 dei capitali censi sovra indicati, e le lire 4912.11.4 di pensioni arretrate, con liberarne la R.azienda.
  4. che il medesimo compratore dal rimanente prezzo pagasse in contanti la somma di lire 75 mila in Genova ed il residuo in Cagliari dentro lo spazio di sei mesi dopo che sarebbe pervenuta la rinunzia del principe Doria.

Essendosi avuta la rinunzia, Donna Elena, nonostante l’opposizione della città di Bosa, che le aveva notificato una protesta il 7 gennaio 1630, e quella del negoziante Pacifico Natter, che voleva continuare nell’appalto dei diritti feudali e doganali, già datogli dalla Reale Udienza, si fece mettere in possesso nell’immediato mese di luglio per commissionali spedite nel precedente giugno.
Il Natter, dopo il parere di giustizia negativo datogli dal Viceré, tentò col fisco la via giudiziaria. La sentenza della procurazione reale del 16 febbraio 1633 decise le differenze esonerando il Natter delle lire 370.13, corrispondenti alla annualità dell’appalto per la Planargia, e lasciando a suo carico sole lire 928.7 per l’arrendamento dei diritti doganali.
Questo feudo non restò molto tempo nella casa Brondo, perché verso il 1670 trovandosi il medesimo onerato non solo delle lire 81876.13.4 dei suindicati capitali censi, ma anche di altre somme caricate in seguito per pagare nel termine stipulato il residuo prezzo di lire 100925, fu d’uopo metterlo in concorso e nuovamente alienarlo.
Mentre questo giudizio pendette per 20 anni, fu l’Incontrada della Planargia pregiudicata di molto per le usurpazioni della città e dei particolari di Bosa, oltre allo spopolamento causatovi dalla peste del 1651; ma finalmente, essendosi proferita la sentenza di graduazione, fu esposta a’ pubblici incanti e deliberata nel 1698 a Don Giuseppe Olives nel prezzo di scudi 42 mila con le stesse ragioni, giurisdizioni, natura e qualità, con cui l’aveva posseduta Don Antonio Brondo.
Nella famiglia Olives il feudo ebbe la stessa sorte; perché arrivati i debiti ed i carichi ad eccedere la somma di scudi 60 mila, fu altra volta messo in concorso.
Vantava delle ragioni, in questo giudizio, Don Ignazio Paliacio, reggente di toga nel sacro supremo consiglio, che aveva sposato Donna Angela Fundoni Olives, di cui era primo avo materno il predetto Don Giovanni Olives, e per salvare i suoi interessi e non lasciar uscir di casa un bene così cospicuo, licitò egli sul feudo, e dopo convenzione coi creditori lo ebbe concesso con gli stessi diritti, qualità e patti coi quali lo avevano posseduto i predecessori (non si sa il tenore dell’aggiustamento coi creditori, né il prezzo in cui se gli deliberò).
Dopo siffatto acquisto il Re Carlo Emanuele spedì un diploma in data del 20 aprile 1756 accordando il titolo di Marchese della Planargia e di Conte di Sindia alla’acquisitore Don Ignazio, ai suoi figli e discendenti in infinito, successori del feudo, osservato però l’ordine di primogenitura.
Comandatasi l’esecuzione di questo diploma per decreto della Reale Udienza 15 giugno 1756, e fatta questa, dopo due anni accadde che Don Ignazio, senza far menzione del predetto diploma e dei diritti concessigli, supplicò il Sovrano perché cambiasse l’allodio in feudo, offrendosi pronto alla ricognizione e a prestare il giuramento di fedeltà e di omaggio, e a prenderne l’investitura.
Don Ignazio fu esaudito nella sua domanda, ed avendone lo stesso sovrano con carta reale del 13 maggio 1658 ordinato al S.R. Consiglio l’investitura, questa gli fu data nel 28 giugno immediato con l’opportuno diploma.
I termini di questa investitura sono, come nella domanda, in feudo cioè totalmente improprio per maschi e femmine, discendenti dell’uno e dall’altro sesso in infinito, libero da ogni peso feudale, laudemio e fatica, meramente ereditario, e disponibile nella medesima natura anche a favore di estranei per atto tra vivi o per ultima volontà, come se fosse allodiale, con le due giudicature, mero e misto imperio e senza variazione alcuna delle clausole e condizioni, portate dallo strumento del 5 dicembre 1629 in quanto non si apponessero alla presente offerta e col titolo marchionale della Planargia.
Non si fa menzione in questo diploma secondo del titolo comitale di Sindia e nemmeno del precitato diploma del 1756, come non ne fu fatta alcuna nel memoriale dell’allora postulante Don Ignazio. Ciò nonostante, i feudatari usarono poi del titolo comitale di Sindia col principale di Marchesi della Planargia.
A Don Ignazio succedette il figlio Don Gavino, il quale, avendo preso per moglie Donna Speranza Manca, ebbe poi successore il primogenito Don Ignazio II, marito di Donna Maria Imbenia Borro. A Don Ignazio II succedette il suo primogenito Don Gavino, al quale poi per esser morto celibe è succeduto dal 1816 suo fratello Don Giovanni Antonio.