Il Feudalesimo in Sardegna

L'introduzione del feudalesimo, che ebbe luogo con la conquista aragonese (1326), annullò in Sardegna l'ordinamento precedente, basato su istituzioni di tipo comunale, e sconvolse la società. Nell'isola, infatti, nella quale si erano affermati nel secolo XIII ad opera di Pisa e di Genova i Comuni cittadini e quelli rurali e nella quale la servitù già andava sparendo, i re d'Aragona Giacomo II e Alfonso il Benigno, spinti dalla necessità di assicurare la conquista effettuata dopo una guerra contro i pisani (1323-1326), e di introdurvi un sistema di governo non dissimile da quello aragonese, attuarono una divisione del territorio in feudi, che assegnarono in ricompensa dei servizi prestati a persone distintesi nel corso della guerra o a persone fedeli.
Così, nei primi anni della dominazione aragonese, verso il 1335, in Sardegna si avevano già trentotto grandi feudi, legati a compensi militari, che giovavano alla Corona d'Aragona in quanto i feudatari rappresentavano una classe sicura per il controllo e la difesa dell'isola. Ogni feudatario, infatti, aveva interesse a servire con fedeltà il sovrano, per conservare il dominio sulle terre e sui villaggi assegnatigli, e ad operare accanto ai funzionari regi per una più completa trasformazione dei costumi e delle istituzioni dell'isola, permeati dalla civiltà comunale introdotta, seppur con qualche germe feudale, da Pisa e da Genova all'epoca del loro predominio.
Il feudalesimo si affermava così in Sardegna attraverso un'imposizione, mentre in Italia aveva perso la sua importanza; per di più non scaturiva da un'evoluzione interna, né si formava accanto a ciascun feudatario una classe minore, utile a successive trasformazioni sociali; infatti, non si aveva alcuna gerarchia, perché dal feudatario si passava direttamente al vassallo, e il feudatario non era altro che l'espressione dell'autorità sovrana.
Nella sua prima impostazione il feudo sardo, che si differenziava da quello aragonese in quanto il concessionario non godeva dei massimi poteri signorili, ebbe soprattutto carattere militare; fu un mezzo utile a dominare le terre conquistate e in pari tempo a trarre vantaggi economici tanto per il feudatario quanto per la Corona, che in questo modo non spendeva nulla di suo per il controllo dell'Isola. Nei diplomi di concessione di feudi dei primi tempi della dominazione aragonese il feudo veniva assegnato “iuxta morem Italiae”, cioè secondo una consuetudine, chiamata anche “mos Sardiniae”, che vincolava il feudatario al sovrano nel modo più completo e che limitava le facoltà del primo a favore del “dominium eminens” del secondo. Il feudatario riceveva il feudo in perpetuo, per sé e per i suoi successori maschi, ma si obbligava a non venderlo, a non alienarlo ad altri se non a sudditi aragonesi o a sardi fedeli – caso questo molto raro – e a non aggiungervi terre acquisite per matrimonio senza il permesso del re, che in tale maniera garantiva alla Corona dipendenti sicuri per il mantenimento del potere. Il feudatario si impegnava inoltre a risiedere nel feudo, a versare cereali e biade, prodotti nelle sue terre, al re o ai funzionari regi in caso di guerra, a mantenere sempre efficienti le fortificazioni del suo feudo, a garantire la prestazione di uno o più cavalli, o uno o più cavalieri armati con un seguito di scudieri secondo l'estensione e il gettito delle sue terre, a versare al re, infine, i tributi dovutigli.
Nei predetti diplomi, nei quali erano ben determinati i servizi militari e i doveri del feudatario nei confronti del re, non venivano chiarite però le misure delle prestazioni dovute dai vassalli, e seppur un clausola stabiliva che i feudatari non potevano “homines villarum male tractare”, gli arbitrii del signore furono la caratteristica dominante del feudo sardo sin dalle sue origini, e uno dei motivi della ribellione isolana contro i re d'Aragona, capeggiata dai giudici di Arborea all'epoca di Pietro il Cerimonioso (1336-1387) e dei suoi successori, va ricercato proprio nel brusco passaggio degli abitanti dei villaggi da liberi in vassalli e negli arbitrii ai quali erano sottoposti. Le terre venivano concesse, infatti, con tutti i diritti, proprietà e pertinenze, e gli uomini e le donne, che vi abitavano o vi avrebbero abitato, di qualunque condizione o di qualsiasi stato, diventavano vassalli all'atto della concessione, con l'obbligo di sottoporsi a “datiis, servitiis, maquitiis, angariis, perangariis, redditibus, exitibus et proventis, censibus, fructibus, carniceriis et omnibus aliis iuribus spactantibus quocumque titulo, ratione vel causa” al signore, al quale spettava anche l'amministrazione della giustizia in tutto il territorio feudale, le cui “pertinentiae” erano ben definite nei diplomi per l'applicazione dei diritti ed erano date dalle case, dalle terre incolte e da quelle messe a coltura, dai boschi, dai molini, dai forni, da tutti i beni immobili, infine, che potevano offrire un gettito. L'amministrazione della giustizia, limitata nei poteri agli inizi della penetrazione del feudalesimo e successivamente più estesa, permetteva inoltre al feudatario vari abusi; nei primi tempi del feudalesimo il signore di un territorio otteneva il “misto imperio”, che corrispondeva alla giurisdizione completa, alta e bassa, nella cause civili e a quella bassa nelle cause penali; il vassallo poteva ricorrere in appello ai tribunali regi, detti curie, ma le difficoltà burocratiche, la lontananza delle curie stesse dal feudo, i legami dei feudatari con i funzionari preposti alla giustizia glielo impedivano.
Gli abusi aumentarono più tardi, quando cessata la ribellione arborense e diminuita di conseguenza l'importanza militare dei feudi, si ebbero concessioni feudali improprie e di tipo aragonese-catalano. Le prime, che allargavano l'ampiezza giurisdizionale del concessionario, furono il primo passo per la penetrazione delle seconde, gli allodi, che portarono i feudatari ad una posizione di maggior potere nell'isola; ferma restando la loro fedeltà al sovrano con tutti gli obblighi conseguenti alla concessione e fermo restando il “dominium eminens” di quest'ultimo, attraverso gli allodi i feudatari ebbero un'estensione di poteri, per di più non controllati, e nel campo dell'amministrazione della giustizia anche il “mero imperio”, cioè l'alta giurisdizione nelle cause penali. Inoltre, nello stesso tempo nel quale si aveva la penetrazione del feudalesimo nelle campagne, nei villaggi e anche in grossi centri, si aveva la trasformazione delle città principali dell'isola, Cagliari, Sassari, Villa di Chiesa, che, già amministrate, a Comune, venivano poste sotto la diretta autorità del sovrano e governate con le medesime istituzioni di Barcellona e si aveva l'introduzione di nuovi istituti amministrativi, soprattutto finanziari, modellati su quelli aragonesi e affidati a funzionari troppo spesso incapaci, corrotti e portati all'arbitrio.
Lo sconvolgimento che ne seguì e che avrebbe dovuto immettere la Sardegna con parità di istituzioni e di costumi negli Stati della Corona d'Aragona, secondo i progetti dei primi sovrani aragonesi, fu la causa di molti mali; la ribellione arborense rese più difficile la situazione, che fu aggravata dai funzionari incapaci e dai feudatari, ligi sì ai sovrani, ma lontani dalla Corte e in grado di commettere per lo scarso controllo tutti gli abusi possibili. I danni si sentirono soprattutto nelle campagne sin dall'inizio della dominazione aragonese, cioè nei territori feudali, nei quali si delinearono per i terreni tre regimi giuridici diversi, non rispettati dai feudatari, e per i vassalli aggravi continui. Si ebbero infatti, terreni comuni, privati e appartenenti al demanio feudale. Per un'antica consuetudine, affermatasi nel periodo in cui l'isola era divisa in giudicati autonomi, dipendevano da ogni villaggio alcuni appezzamenti, che annualmente venivano assegnati agli abitanti privi di proprietà al fine di coltivarli e di trarne quanto necessario per l'esistenza; in tali terreni, detti comuni, si applicava, come in tutte le terre, il sistema della rotazione, pascolo e coltura, e di conseguenza agli stessi abitanti spettava il diritto di portare le greggi negli appezzamenti non destinati alla semina e spettava anche uno speciale uso, detto ademprivio, che concedeva lo sfruttamento libero delle acque e della legna.
Accanto a questi terreni c'erano quelli appartenenti a proprietari, cioè i terreni privati ottenuti attraverso acquisti o successioni ereditarie o donazioni, e quelli del demanio feudale, formatosi attraverso le terre conquistate e sottratte soprattutto ai Pisani e ai Genovesi. In queste ultime terre, nei salti e nei boschi, i vassalli avrebbero dovuto esercitare senza il pagamento di tributi diritti di ademprivio, ma i feudatari quasi sempre non lo permettevano; per di più occupavano terre comuni, dando origine a lunghe liti fra loro e i vassalli, e intralciavano lo sviluppo della proprietà privata a vantaggio delle terre demaniali da loro affittate.
In pratica, ai primi feudatari, subito dopo la conquista dell'isola, interessava più che l'organizzazione del territorio assegnato lo sfruttamento nella maniera più redditizia, e quando, superato il periodo della ribellione arborense, ritornò la tranquillità, i feudi, che ebbero carattere militare ed economico, in conseguenza soprattutto delle necessità belliche impellenti, finirono con l'avere soltanto il secondo carattere.
I feudatari, infatti, giunsero a non rispettare più l'obbligo sancito nei diplomi di servire il re con i cavalli armati, di curare l'efficienza delle fortificazioni e di lasciare a disposizione dell'autorità sovrana le quantità di vettovaglie utili in caso di guerra, e pervennero anche a non osservare più la clausola che stabiliva l'obbligo della loro residenza nel feudo e il divieto di costruire o comprare case a Cagliari o nelle altre città dell'isola. Abbandonarono il feudo nelle mani di un procuratore, quasi sempre corrotto, si recarono ad abitare nelle città della Sardegna o della penisola iberica e si preoccuparono soltanto dei redditi della loro terra. Dalla pessima applicazione del sistema, da addebitarsi in gran parte più che ai sovrani alle persone, derivò una situazione di disagio, che non fu corretta. Anche la Chiesa si trovò in una situazione difficile; ad eccezione di pochissime concessioni, i re d'Aragona evitarono in Sardegna l'assegnazione di feudi agli ecclesiastici, lasciarono che i funzionari e i feudatari si appropriassero dei beni monastici e fecero divieto a tutti i feudatari di donare, legare, alienare agli stessi ecclesiastici beni immobili di natura feudale. Tali norme, nate dalla necessità di combattere il clero e gli ordini religiosi favorevoli a Pisa e a Genova o ai ribelli arborensi, rimasero in vigore anche quando il ceto degli ecclesiastici fu ligio all'Aragona.
Né giovò ai vassalli l'introduzione dell'istituto parlamentare, modellato su quello della Catalogna; l'introduzione, avvenuta nel 1355 con il primo parlamento celebrato a Cagliari da Pietro il Cerimonioso, aggravò anzi di tributi i vassalli, che non vi avevano voce. Al parlamento, diviso in tre bracci, l'ecclesiastico, il feudale e il reale, partecipavano i rappresentanti dell'alto clero, arcivescovi, vescovi, abati, i feudatari e i rappresentanti delle città e delle ville reali, cioè delle città e dei villaggi non infeudati che dipendevano direttamente dalla Corona.
Ogni braccio presentava al re le sue richieste, dette capitoli, che il sovrano approvava con il placet o respingeva, e in cambio delle concessioni, i tre bracci si impegnavano a versargli un “donativo”. Il carico del donativo però, pur non avendo i vassalli una rappresentanza diretta, ma indiretta attraverso i loro signori, gravava sulle loro famiglie, indicate come “fuochi” e rispetto ai vassalli dei feudi stavano meglio senz'altro i vassalli reali, rappresentati per lo meno da persone scelte per elezione nelle città e nei villaggi. C'era poi una norma che permetteva il trasferimento dei vassalli da un feudo a un altro e da un feudo in una città o in una villa reale, ma non veniva rispettata nei primi tempi del feudalesimo; fu ribadita nella prima metà del secolo XV e la conseguenza nel tempo fu che i vassalli con un una possibilità finanziaria, anche esigua, riuscirono a trasferirsi nelle città e nelle terre reali, nelle quali le condizioni di vita erano migliori. Nelle città, sedi di funzionari, la società, divisa in corporazioni o “gremi”, era più accogliente; i posti di fiducia, le cariche, erano ricoperti da elementi aragonesi e i “gremi”, così chiamati perché associavano nel grembo cioè sotto la protezione della Madonna o di un Santo i lavoratori di uno stesso mestiere o i professionisti di una stessa attività, avevano carattere soprattutto religioso, di tutela della produzione e dei consociati, senza alcun rilievo, ma i Sardi, provenienti dall'interno, potevano trovare lavoro, inserirsi nei gremi, lavorare nelle campagne dipendenti dalle città, svolgere una qualsiasi attività manuale accanto ai numerosi mercanti, che nelle città stesse avevano la loro sede.
Ne conseguì uno sviluppo dei centri reali a danno delle campagne e nello stesso tempo l'impossibilità della nascita di una borghesia vera e propria, che in altri Paesi scaturiva dalle corporazioni aventi carattere politico e non religioso come quelle aragonesi. Ma il danno si sentì maggiormente nelle campagne, già spopolate a causa della peste frequente e della ribellione arborense, che portò subito una vera guerra fra i Sardi ribelli e l'Aragona; proprio in questo periodo, nel secolo XIV, molti villaggi furono distrutti; molti abitanti furono uccisi, molti trasferiti come prigionieri nelle Baleari o nella penisola iberica e di conseguenza i paesi che sopravvissero al turbine della guerra, talvolta colpiti anche dalla peste, rimasero disabitati con gravi riflessi per la situazione dell'isola. E la misura dei tributi non fu ridimensionata dai feudatari, né stabilita in modo definitivo dai sovrani, né tanto meno si provvide a risanare l'economia agro-pastorale sarda dopo la ribellione e le pesti più gravi; furono confiscati anzi molti beni immobili dei ribelli, soprattutto case e terreni, e assegnati ad Aragonesi, Catalani, Valenzani e Maiorchini distintisi nella lotta contro gli Arborea; gli assegnatari trascurarono le terre, come facevano anche i Sardi, in attesa del ritorno alla normalità e finirono poi col venderle ai feudatari, che aumentarono le loro proprietà e soprattutto i pascoli da dare in affitto ai vassalli. In condizioni normali, con buoni provvedimenti e con migliori concessionari, nei feudi i tributi non sarebbero stati tanti pesanti; ma ai mali prodotti dalla peste e dalla ribellione, che divennero cronici, si aggiunsero con frequenza le siccità e le carestie. L'esosità di quasi tutti i feudatari, privi di scrupoli, e gli arbitrii non diminuirono, tanto che si ebbero nel tempo continue richieste di sgravi e di diminuzione di tributi da parte dei vassalli, che, seppure esagerate per ottenere risultati soddisfacenti, dimostrano le condizioni dell'isola.
I tributi erano di tre tipi: personali, reali e giurisdizionali. Ai tributi personali apparteneva il “feu”, che si pagava in modi diversi, il chiuso e l'aperto; nel primo caso il “feu”, detto anche “focatico” veniva pagato dalla comunità del villaggio, che lo ripartiva tra tutti i vassalli secondo le condizioni di ciascuno, eccettuati i giovani di età inferiore ai diciotto anni, i vecchi, gli ecclesiastici e i poveri; nel secondo veniva versato come quota individuale da ciascun vassallo. L'applicazione aveva sempre luogo però secondo le famiglie, cioè i “fuochi”, da cui il nome del tributo, e secondo le capacità contributive di ciascuno. I tributi reali venivano versati, invece, dai vassalli sui prodotti agricoli e pastorali e la misura variava da luogo a luogo; anche per i tributi personali non esisteva una misura fissata per legge e il “feu” veniva pagato differentemente nei vari feudi secondo la consuetudine di ciascun territorio. Il più importante dei tributi in agricoltura era quello che si pagava in starelli sul grano e sull'orzo e che consisteva nel versamento al signore di una quota parte del cereale annualmente seminato. Il calcolo del seminato si faceva attraverso i gioghi impiegati, da uno a tre, perché oltre i tre gioghi non si pagava, o attraverso il numero degli aratri o attraverso il lavoro fatto con la zappa dai vassalli poveri che non avevano giochi, né aratro.
Questo tributo si pagava “llaor de corte” o “terratico” e prendeva anche varie altre denominazioni secondo i modi di esazione; infatti, si diceva diritto di giogo, se veniva presa come misura del pagamento l'estensione di terra che un giogo di buoi poteva arare in un giorno, o “moi moi” (moggio per moggio”, o “portadia”, se il tributo era pari alla quantità del cereale seminato, o “mesa portadia”, se era della metà.
Non essendoci massimi o minimi fissati per legge ed essendo le quote differenti da villaggio a villaggio, soprattutto secondo la natura del suolo, si ricorreva in genere, per determinare la misura del tributo, ad accordi fra i feudatari e i vassalli, detti “capitoli di concordia”, che i signori spesso non rispettavano; i versamenti calcolati sul seminato e non sul prodotto ponevano però i vassalli in una situazione difficile, quando il raccolto era magro. I vassalli erano poi obbligati alla “roadia” o “arrobadia”, che consisteva in una prestazione di lavoro agricolo per conto del signore o nel versamento di un tributo al posto del lavoro; e tale tipo di comandamento dominicale toglieva giornate lavorative al vassallo o lo gravava nelle contribuzioni.
Il più importante dei tributi reali relativi alla pastorizia era il “deghino”, detto anche “sbarbagio” o “erbatico”, che si pagava per tutto il bestiame e che consisteva generalmente nella cessione al signore di un capo per ogni dieci. Ma il tributo si applicava sino ad un determinato numero di capi, così come in agricoltura il “llaor” veniva pagato sino ad una determinata quantità di cereale seminato, e ne conseguiva che ricchi e poveri pagavano le stesse imposizioni e che anzi si aveva un aggravio più sul povero che sul ricco. Il criterio poteva portare come conseguenza ad un incentivo ad una maggiore produzione o ad un aumento del bestiame, ma i vassalli poveri non ne avevano i mezzi e venivano spesso soffocati dai ricchi.
Altri diritti reali meno importanti erano quelli che si pagavano per la vendita del vino nelle osterie, detti “fonda” e “puntarolu”, per la macellazione e la vendita delle carni, chiamati “carneceria”, per l'esercizio della pesca, per il servizio di vigilanza sulle terre coltivate, la cosiddetta “scolca”. Poiché i terreni coltivati generalmente non erano chiusi e il bestiame li invadeva con gravi danni, la vigilanza di essi veniva affidata, infatti, ad una guardia armata; soltanto gli orti erano sempre recintati e nei primi tempi del feudalesimo la coltura orticola non era sottoposta a tributi. Nei tributi personali erano compresi, infine, i comandamenti dominicali che, oltre alla “roadia”, consistevano nell'obbligo di trasportare con carri i prodotti agricoli e pastorali appartenenti al feudatario nei magazzini dei villaggi o nelle città, nell'obbligo, infine, di versare in natura o in denaro al signore del feudo uno speciale tributo, detto diritto di gallina. In quest'ultimo tributo, riservato in origine ai soli vassalli ammogliati ed esteso poi in vari feudi anche ai celibi, si intravide dagli storici una prestazione sostitutiva dello “ius primae noctis”, cioè del “cunnatico” o diritto che il feudatario aveva di trascorrere la prima notte di matrimonio con la sposa del vassallo, ma la prestazione è da collegarsi piuttosto ad un tributo dovuto dal vassallo quando si ammogliava.
Altri tributi, legati all'amministrazione giudiziaria esercitata nel tribunale del signore attraverso ufficiali di giustizia da lui scelti, gravavano il vassallo, che era costretto al versamento di speciali imposizioni per lo svolgimento delle cause e per il mantenimento dei carcerieri e delle carceri esistenti in ciascun feudo. Connessi poi con il potere giurisdizionale del feudatario erano altri diritti feudali, quali l' “incarica” e la “machizia”. L' “incarica”, che in origine era una multa o una pena applicata alla collettività di un villaggio o di un abitato quando veniva commesso un reato e non se ne scopriva il colpevole, fu trasformata poi in un tributo fisso, e in tributo in denaro fu trasformata anche la “machizia”, che originariamente consisteva nella facoltà di macellare e vendere al pubblico il bestiame scoperto e catturato in territorio seminato. Un tributo giurisdizionale era infine il “laudemio” o “ius relevi”, che veniva pagato dal feudatario al sovrano per ogni trapasso di feudo e che i vassalli pagavano al loro signore quando vendevano le loro terre. E un tributo giurisdizionale era altresì la “regalìa”, che consisteva nell'obbligo per i vassalli di usare i forni e i molini del signore mediante il versamento di un canone. A questi tributi si aggiungevano il “presente”, che era un dono fatto dai vassalli al signore in occasione di determinate feste, quali il Natale e la Pasqua, e il diritto di guardia, che era un versamento per la protezione delle coste, spesso attaccate dai corsari; c'erano poi altri diritti o altre prestazioni che variavano da una località all'altra; tali diritti offrivano al feudatario un cespite sempre più elevato, ma ponevano i vassalli in una situazione sempre più disagiata.
I diplomi di investitura, secondo il sistema instaurato all'epoca dell'introduzione del feudalesimo, non stabilivano mai i diritti signorili; il feudo veniva, infatti, concesso con tutti i diritti appartenenti al sovrano e ne conseguiva che il feudatario poteva commettere ogni specie di abuso. Nel periodo della dominazione aragonese gli abusi divennero così tanto frequenti che Alfonso il Magnanimo, nella prima metà del secolo XV, sottolineava l'oppressione nella quale i vassalli dell'isola erano tenuti e intravedeva la necessità di rimedi atti a sollevarne le condizioni. Ma il re d'Aragona, impegnato nei problemi del napoletano, non ebbe la possibilità di affrontare la situazione sarda, già intravista nei suoi mali da Pietro il Cerimonioso nel secolo precedente, e la situazione stessa continuò ad aggravarsi. I feudi dell'isola passarono poi nei primi tempi da un signore all'altro con molta frequenza e il feudo finì con l'essere considerato come una terra da sfruttare.
Mancarono, infatti, nel territorio feudale, quasi sempre, l'insediamento della famiglia signorile e il conseguente attaccamento al possesso; e, quando il feudo rimase alla stessa famiglia, quest'ultima non l'amministrò quasi mai direttamente, ma attraverso rappresentanti, cercando di ottenere il massimo utile. Per di più i feudatari provenienti dalla Catalogna avevano un concetto ben diverso dell'amministrazione feudale; i diritti signorili del feudo catalano, riconosciuti dagli “usatici” di Barcellona, mettevano il feudatario in una posizione di maggior potere sui vassalli e ne conseguiva da parte dei feudatari proposti a un territorio sardo un'incomprensione della maggior libertà concessa ai propri sottoposti dalla consuetudine italiana in vigore nell'isola.
I vassalli catalani o “pagesos de remença” erano soggetti, infatti, allo “ius male tractandi”, che era la facoltà concessa al loro signore di trattarli secondo il proprio arbitrio, ed erano sottoposti, oltrechè all'obbligo di risiedere nel feudo, di versare i tributi e di effettuare le prestazioni dominicali, a vari diritti sconosciuti in Sardegna, che formavano però nel feudatario una mentalità diversa da quella necessaria per amministrare un feudo sardo e che spingevano lo stesso feudatario agli abusi. Vigevano in Catalogna, ad esempio, la “cugucia” che consentiva al signore di dividere con il vassallo tradito dalla moglie i beni di quest'ultima, la “exorquia”, che permetteva allo stesso signore di ottenere una parte dei beni del vassallo morto senza figli, la “intestia”, che stabiliva il passaggio al medesimo signore di una quota dell'eredità lasciata da un vassallo morto senza testamento, la “firma de spoli”, che concedeva ad ogni feudatario di sottrarre per sé una percentuale della dote di tutte le donne che andavano spose ai vassalli. I diritti signorili catalani permettevano l'arbitrio, e l'abitudine all'arbitrio passava nell'isola e si affermava, seppur dai sovrani aragonesi fosse vietata qualsiasi azione da parte dei feudatari dannosa al buon governo e alla buona amministrazione dell'isola.
C'erano però eccezioni, rappresentate da feudatari, che prestato il giuramento al sovrano, talvolta mediante una persona da loro designata, e ricevuto il giuramento dai vassalli, si occupavano del territorio ottenuto in concessione con scrupolo, spinti da un senso di cavalleria, proteggendo i propri sottoposti, migliorando le terre e rispettando i “capitoli di grazia” o “di concordia”, che stabilivano spesso franchigie, oltrechè accordi relativamente ai diritti e alle prestazioni dovute dai vassalli.
All'esosità dei feudatari, che agivano da conquistatori, si univano vari mali; la popolazione, ad esempio, era andata sempre più diminuendo e di conseguenza molte terre erano rimaste e rimanevano incolte; per di più la malaria toglieva agli uomini la volontà di lavorare; nelle terre incolte incombeva spesso la siccità o la rovina di un'inondazione; il bestiame, lasciato brado per mancanza di fattorie, il più delle volte non sopravviveva a causa del freddo o del pascolo insufficiente; e ai vari mali si aggiungeva la lotta tra agricoltori e pastori, dovuta al fatto che questi ultimi non si preoccupavano dell'invasione delle terre messe a coltura da parte del loro bestiame o delle loro greggi; la trascuratezza nella manutenzione delle strade e la mancanza di ponti portavano, infine, i vari villaggi all'isolamento e i vassalli, che già si trovavano ostacolati dai loro signori nelle attività mercantili, in quanto la libertà di commercio era loro vietata dai feudatari, finivano con il restare maggiormente chiusi e soffocati nel territorio di residenza.
La loro esistenza, ad eccezione di alcuni casi, quelli dei vassalli più ricchi, era modesta; contadini o pastori o artigiani abitavano nelle pianure in case basse, costruite con mattoni di fango e di paglia cotti al sole, spesso prive di intonaci, nelle montagne o negli altipiani in dimore costruite con pietre sovrapposte. Nelle case, che avevano quasi sempre un cortile per gli animali e un forno per la cottura del pane, la suppellettile era misera; una o due cassapanche, utili per conservare il vestiario, la biancheria e talvolta le provviste, un tavolo, che poggiava su due cavalletti, usato per consumare i pasti e per lavorare il pane, alcune sedie con il fondo di legno o di paglia, alcuni letti ugualmente di legno con sacconi a guisa di materassi formavano il mobilio. L'ambiente più importante della casa era la cucina, che come il resto della dimora non aveva pavimento e che nel centro presentava, scavata per terra, una fossa utile alla cottura dei cibi. Nella cucina, accanto al fuoco, la famiglia si riuniva nelle ore libere dal lavoro in inverno e per abitudine vi trascorreva talvolta il tempo libero anche in estate. Ma le ore libere erano poche; le donne si occupavano delle faccende domestiche, degli animali da cortile, lavoravano negli orti; gli uomini si recavano di buon ora nei campi e rientravano nelle abitazioni al calar del sole e, se pastori, stavano lontani dal villaggio per lunghi periodi. Il vitto quotidiano era magro, composto di pane, formaggio, verdura; la carne era il cibo dei giorni di feste e nelle giornate di lavoro un solo pasto veniva consumato nelle case, a base di minestra; l'altro veniva fatto in campagna.
Poiché il feudatario risiedeva difficilmente nel feudo, la sua dimora, che in genere sorgeva nel villaggio più importante del suo territorio, era abitata dai suoi parenti o dal suo rappresentante; era una casa migliore delle altre, costruita in pietra, con le caratteristiche di un piccolo castello, di un palazzotto fortificato. Talvolta, all'inizio della dominazione aragonese, la dimora feudale era un castello, ma in entrambi i casi l'arredamento era povero, seppure migliore di quello delle case dei villaggi. Un tono più elevato avevano alcune case delle città, soprattutto quelle dei mercanti e dei nobili, ma anche nelle città i vassalli poveri, specie quelli provenienti dall'interno che si inurbavano con modesti mezzi, abitavano in umili dimore, prive di arredamento. Nelle città, inoltre, a carattere soprattutto agricolo, come Sassari, dominata da un magnifico castello, si avevano case basse, di uno o due vani, poverissime, abitate da contadini, che vivevano peggio degli abitanti dei villaggi.
Erano contadini che non possedevano nulla, che traevano il loro sostentamento dal bracciantato, lavorando nelle terre all'intorno della città per conto di proprietari o di signori feudali. E nelle città si aveva così il contrasto di case signorili e di case umili, di condizioni di vita estremamente diverse, data anche dalla mancanza di un numeroso ceto medio. Un forte contrasto si aveva però anche nelle campagne, nei villaggi, dove accanto ai vassalli proprietari di terra e di buoi vivevano in numero maggiore vassalli privi di tutto, e da questa diversità derivavano due classi, una di proprietari o agricoltori, e una di poveri o zappatori, così come due classi scaturivano dai pastori proprietari di bestiame e dai pastori servi.
La triste situazione determinatasi nel periodo della dominazione aragonese, aggravata dal passaggio di feudi a mercanti, avidi di rifarsi, in cambio di prestiti alla Corona e dal fatto che talvolta i mercanti investivano in terre una parte dei loro capitali e agivano senza scrupoli per trarre dalle terre stesse forti utili, si mantenne nel periodo della dominazione spagnola. La crisi, dovuta alla guerra, alla rivolta arborense, alla peste frequente, alla trasformazione sociale, compiuta male non per colpa della Corte d'Aragona, ma a causa degli uomini scelti ad operarla, non fu affrontata alle origini. L'interesse poi più per l'Atlantico che per il Mediterraneo determinò per l'isola dal secolo XV una crisi maggiore, e le provvidenze che vennero prese dai sovrani nel campo agricolo, pastorale e sociale operarono in superficie. Il feudalesimo rimase nei suoi aspetti più deteriori, soprattutto gli abusi feudali, instaurati dai primi feudatari catalani privi di scrupoli che consideravano la Sardegna come una terra di nemici, si mantennero vivi, anche perché la consuetudine per i signori di non abitare nei feudi divenne norma e i vassalli vennero angariati da rappresentanti o podatari, il cui unico desiderio era soprattutto quello di arricchirsi e la cui attività era basata di conseguenza sugli arbitrii. I feudi più estesi, quali il marchesato di Quirra che comprendeva settantasei villaggi, erano infatti in mano di feudatari iberici residenti in Spagna e i podatari approfittavano dell'assenza dei signori paghi di godere nelle loro terre di origine una parte dei profitti sardi. L'economia della Sardegna, che fruiva limitatamente delle sue produzioni, ne risentiva, e l'isola, colpita spesso dalla peste, attaccata nelle sue coste dai Barbareschi, difettosa di popolazione, con colture limitate e con una pastorizia affidata alle condizioni della natura non poteva facilmente risollevarsi. Le relazioni inviate dai viceré alla Corte di Madrid erano frequenti ed esponevano la necessità di aumentare la popolazione attraverso un'immigrazione dalla Spagna o attraverso un maggior numero di matrimoni, che allora erano scarsi perché le imposizioni gravavano più sui coniugati che sui celibi. Le stesse relazioni presentavano il problema della fascia costiera, che a causa delle incursioni dei Barbareschi andava pian piano spopolandosi, sottolineavano la necessità di incrementare l'agricoltura e di migliorare la pastorizia, e i parlamenti ribadivano i contenuti delle relazioni con continue richieste di provvedimenti.
Alla Corte di Madrid non sfuggiva l'importanza dei problemi, ma mancavano i fondi sufficienti a rinnovare in modo completo l'economia dell'isola; secondo la mentalità degli amministratori centrali poi, i fondi non dovevano essere messi a disposizione della Spagna, ma ricavati dalla stessa Sardegna. Infine, mancavano nell'isola funzionari zelanti e capaci e l'apparato burocratico, formato da elementi spagnoli, in quanti i Sardi non erano ammessi alle cariche elevate o di maggior rilievo, non prendeva a cuore i problemi o, se li prendeva, non poteva agire con immediatezza, data la lontananza dal governo, al quale ogni attività, ogni pratica dovevano essere sottoposte. I rimedi erano così limitati, e l'autonomia, di cui l'isola godeva come regno a sé unito alla Corona di Spagna, era circoscritta all'amministrazione finanziaria; gli appalti delle saline, che davano il maggior gettito, la pressione fiscale esercitata sulla popolazione e gravante sui vassalli dovevano offrire quanto era necessario per le spese della difesa, dell'apparato burocratico, quanto era utile, infine, e non lo era quasi mai, a pareggiare annualmente le uscite.
Dalla Spagna intanto l'immigrazione avveniva verso il continente americano; l'attività di Carlo V e di Filippo II contro i Barbareschi non risolveva il problema delle coste sarde e quello conseguente di uno sviluppo dei traffici; l'introduzione di nuove colture, l'incremento di quelle già esistenti non attecchivano in Sardegna per mancanza di braccia e di capitali, né si formava nell'isola, data la situazione, una classe borghese come altrove. Si avevano, inoltre, dissidi fra gli ecclesiastici, che erano immuni da molte imposizioni e liberi spesso da dogane, e gli altri ceti, gravati da imposte. Scaturiva infine un altro male, che peggiorava la situazione, quello della usura; i contadini poveri rovinati dalle carestie, i pastori danneggiati dalla siccità, i feudatari minori, colpiti dalle stesse avversità che rovinavano i vassalli, erano costretti a ricorrere ad usurai, che per le somme o per i prodotti in natura dati in prestito esigevano interessi altissimi. E, mentre i feudatari maggiori che avevano altre risorse in Spagna sfuggivano agli usurai e i feudatari minori potevano rifarsi sugli stessi vassalli nelle annate successive, la gran parte dei vassalli privi di mezzi, pur di superare la congiuntura e di giungere al successivo raccolto o alla ricostituzione del gregge, accettava il prestito, ma si avviava verso la miseria. Fu proprio per ovviare a questa situazione di disagio che nacquero i monti granatici con il compito di aiutare i vassalli poveri e di arginare l'usura, inutilmente condannata dalla Chiesa. Ma la sfiducia minava gli animi dei vassalli, e il carattere dei Sardi, già fiaccati dalla malaria, si indeboliva, aprendosi alla speranza e alla rassegnazione.
Tuttavia nel periodo della dominazione spagnola non mancò la lotta da parte dei vassalli, che uno storico del secolo XVI, il Fara, definì “vexati a baronibus inexplebili siti”; lo dimostrano i memoriali inviati alla Corte di Madrid, i documenti delle cause svoltesi presso la Reale Udienza, che era il supremo tribunale dell'isola. Dai primi risultano le continue richieste rivolte al sovrano dai vassalli per arginare gli abusi e i maltrattamenti dei feudatari o dei loro rappresentanti; i secondi danno un quadro delle liti tra i vassalli e i loro signori, accusati di richieste di prestazioni illegittime, di occupazioni arbitrarie di terreni comunali, di abusi infine di ogni genere. Il malanimo dei vassalli non era contro il governo centrale, ma contro i feudatari e si riteneva dai più, a partire dallo stesso Fara, che la causa dei mali della Sardegna fosse da ravvisarsi soprattutto nel feudalesimo così come era stato applicato e così come si era affermato nel tempo. Spesso il feudatario non conosceva neppure il suo feudo, né i suoi vassalli, conosceva le sue terre attraverso i “cabrei”, i registri nei quali apparivano le estensioni, i confini, le colture dei suoi possessi; tuttavia, mentre i vassalli avevano una grande venerazione per il loro sovrano, non l'avevano affatto per il loro feudatario, e soprattutto quando era assente.
Il malanimo contro la classe feudale era dato, oltrechè a causa degli abusi, dalla posizione che la nobiltà con o senza feudi, aveva nell'isola. Fin dai primi tempi della conquista aragonese la nobiltà godeva di speciali privilegi, e quella senza feudo, formata dai parenti, dai familiari dei feudatari, era molto numerosa; spesso vivevano nei feudi sardi i parenti dei feudatari residenti in Spagna con le loro famiglie. E questa nobiltà, che talvolta risiedeva anche nelle città, viveva nell'ozio, godendo dei profitti feudali e gravando sulla popolazione delle campagne. Era, inoltre, esonerata da molte contribuzioni, sottratta alla giustizia ordinaria e sottoposta alla giurisdizione di sette pari. I vassalli, oppressi dai vari tributi, avevano promesse dai vari visitatori che la Corte di Madrid inviava periodicamente nell'isola per le ispezioni; in loro favore si avevano spesso raccomandazioni sovrane presso i feudatari, ma a nulla valevano. C'erano, è vero, vassalli che si trovavano in agiate condizioni economiche, proprietari soprattutto di terre e di bestiame, perché il denaro circolante era scarso, tanto che i censi sulle proprietà e i pagamenti in natura erano frequenti, ma i vassalli benestanti erano pochi e la grande maggioranza viveva nella povertà o nei disagi.
La situazione era inalterata quando la Sardegna passò alla Casa Savoia nel 1720; il regime feudale, introdotto male dagli aragonesi, affermatosi nell'epoca spagnola nei suoi aspetti più negativi, dovuti in parte alla mentalità retriva e al troppo potere dei feudatari, in parte alla debolezza della Corte di Madrid, timorosa di intaccare i privilegi del ceto feudale, che era uno dei maggiori esponenti dello Stato, rimase radicato per quasi tutto il periodo della dominazione sabauda. Per di più, in base al trattato che poneva la Sardegna con titolo regio alle dipendenze di Vittorio Amedeo II, i grandi feudatari spagnoli, che possedevano estesi territori nell'isola, continuavano a mantenere il possesso delle loro terre e gli antichi benefici e privilegi. Lo Stato sabaudo, che aveva perso la Sicilia e aveva ottenuto in cambio la Sardegna con un reddito inferiore, si trovò di colpo a dover affrontare una serie di problemi, le cui origini erano lontane nel tempo, e a risolvere una situazione economica veramente difficile, anche perché la Sardegna aveva risentito della crisi attraversata dalla Spagna un secolo dopo la scoperta dell'America e i mali dell'isola, a causa dei rimedi insufficienti, erano diventati a mano a mano più gravi.
La Corte di Torino non ebbe subito, né poteva averla, una visione organica dei vari problemi e per le finanze adoperò lo stesso atteggiamento della Corte di Madrid, una politica cioè di equilibrio, di pareggio, per quanto possibile, delle uscite del bilancio sardo con le entrate della stessa isola. I problemi sardi sfuggivano ai dirigenti sabaudi per vari motivi. Anzitutto le caratteristiche della pastorizia e dell'agricoltura dell'isola erano differenti da quelle del Piemonte, inoltre gli stessi dirigenti ignoravano le tradizioni, i costumi della Sardegna e, presi come erano dalle necessità di affermare il proprio dominio e da quella di trarne un utile, vedevano la società sarda in funzione di tale principio. Si ebbero tuttavia da parte del governo piemontese provvedimenti proficui a sanare determinati mali, ma furono provvedimenti parziali, che talvolta non raggiunsero in pieno gli effetti desiderati, come quello relativo al ripopolamento dell'isola, e che non toccarono il regime feudale. Il feudalesimo, infatti, seppur Carlo Emanuele III tentò di diminuire i privilegi feudali, si mantenne con le sue vecchie strutture.
Proprio all'epoca di Carlo Emanuele III, nel 1744, si ebbe un progetto per il riscatto dei feudi in possesso di nobili residenti in Spagna. Il progetto, suggerito principalmente dalla necessità di lasciare nell'isola l'utile dei feudi, molto elevato, che veniva goduto nella penisola iberica, avrebbe portato, se realizzato, notevoli vantaggi; infatti, i feudatari residenti in Spagna possedevano all'incirca la metà dell'Isola e i loro territori, estesissimi, si sarebbero potuti dividere tra molti signori con l'obbligo della residenza; i vassalli sarebbero stati sottratti alle angherie dei podatari, avrebbero raggiunto migliori condizioni di vita e la Corte con le nuove infeudazioni avrebbe potuto disciplinare i rapporti fra feudatari e vassalli. Ma il progetto fu causa di contrasti tra le due Corti di Torino e di Madrid e fu abbandonato sul nascere. I vassalli, intanto, continuarono a vivere nella stessa situazione dell'epoca precedente, anzi talvolta in condizione peggiore. Notava un conoscitore della Sardegna e dei suoi abitanti, il Mimaut, che “non vi erano infelici e persone da compiangere pari ai vassalli delle campagne, che gemevano curvi sotto il peso di corvèes, imposte e mali di ogni genere, ma erano nati per servire e nessuno si occupava della loro sorte”.
Sotto i Savoia gli abusi feudali talvolta si allargarono; molti feudatari, approfittando del fatto che i diplomi di concessione non stabilivano i diritti signorili oppure, se li stabilivano, gli stessi diplomi restavano segreti, imposero prestazioni non dovute ai vassalli; altri pretesero dai loro sottoposti versamenti che nessun diploma, nessuna concessione avrebbe potuto prevedere; così, ad esempio, i vassalli di Montemaggiore furono obbligati a versare al loro signore, il Duca dell'Asinara, inutilmente richiamato dalla Corte per i suoi soprusi, un contributo di grano in più per compensare quello che i topi gli mangiavano nel magazzino. D'altra parte il governo piemontese, che aveva una delle sue basi nell'elemento feudale, non poteva agire a fondo; poteva stendere sì un progetto come quello del 1744, che andava a favore di nuovi feudatari, poteva tentare di arginare con le dovute cautele gli abusi feudali tributari e giurisdizionali, ma si trovava di fronte a un ceto nobiliare troppo potente e talvolta la sua attività si esprimeva in disposizioni o richiami di poco significato.
Frattanto il malanimo si sviluppava maggiormente; nelle masse, ignoranti, prive purtroppo di coscienza politica, l'astio si trasformava in odio nei confronti dei feudatari e del regime feudale; i vassalli, gravati, impoveriti, sottoposti ad ingiustizie, supini ad ogni prepotenza, privi di espressione, vedevano soltanto nel feudatario l'unica causa dei loro mali e non la intravedevano nel sistema. E dal malanimo, dall'odio represso, sull'esempio della Rivoluzione Francese e delle nuove correnti, scaturivano in Sardegni i noti moti del 1793-1796 contro i Piemontesi e la tirannide feudale, che, proprio per la mancanza di una coscienza politica, cadevano nel nulla. Il moto contro i feudatari, capeggiato da un giudice della Real Udienza, Giovanni Maria Angioi, percorse tutta l'isola e parve per un momento che la fine del feudalesimo fosse giunta. L'odio dei vassalli che, insorti contro il fiscalismo feudale e contro l'amministrazione della giustizia nei feudi, saccheggiavano e abbattevano i palazzi dei loro signori, mantenendo inalterata la loro fedeltà al sovrano, si esprimeva anche in un canto popolare, composto dal Mannu. Ma la rivolta si spegneva con il volontario esilio dell'Angioi e altri moti antifeudali a Thiesi e a Santulussurgiu nel 1800, in Gallura nel 1802, venivano repressi.
I moti segnavano però una svolta nella politica della monarchia sabauda che, data la situazione, attuava una serie di riforme a vantaggio dei vassalli; e si rafforzavano in questo modo la fedeltà degli stessi vassalli alla monarchia e il concetto di un sovrano inteso paternalisticamente. Nell'aprile del 1799 veniva emanato un editto contro gli abusi dell'amministrazione della giustizia; attraverso l'editto la procedura giudiziaria veniva riordinata e la scelta degli ufficiali di giustizia, che fino ad allora venivano nominati nei feudi dei vari signori, veniva sottoposta al potere centrale; l'operato degli ufficiali, succubi dei feudatari, passava inoltre sotto il controllo del governo e ai feudatari veniva tolta la possibilità di commettere arbitrii attraverso persone di loro fiducia. L'editto fu seguito da una serie di riforme, quali quella della creazione delle Prefetture, utili a una più spedita attività giudiziaria e a un controllo della condotta degli ufficiali di giustizia. Nel settembre del 1799 veniva poi emanato un altro editto al fine di limitare gli abusi tributari; per la prima volta si istituiva una Regia Delegazione con il compito di esaminare le contestazioni sui tributi feudali, le controversie sorte fra feudatari e vassalli circa il pagamento dei diritti. La Reale Udienza, che fino ad allora avocava a sé tali controversie, le lasciava alla nuova speciale Delegazione, il cui operato doveva essere sottoposto all'approvazione del sovrano.
Infine un terzo editto, emanato nell'agosto del 1800, stabiliva nuove norme sui comandamenti dominicali e imponeva ai vassalli la prestazione della loro opera al servizio del signore per una sola giornata e soltanto dentro il feudo con diritto a un compenso o agli alimenti. L'editto aboliva anche le prestazioni richieste in sostituzione dell'incarica o degli stessi comandamenti e garantiva l'uso degli ademprivi a tutti i vassalli. Le riforme contenevano alcuni rimedi abbastanza concreti, ma il peso dei tributi, che non era stato diminuito, veniva reso grave da una serie di carestie che colpivano l'isola nel primo ventennio dell'Ottocento. I mali del passato dovuti all'arretratezza dell'agricoltura e della pastorizia erano sempre vivi. E spesso i feudatari preferivano sviluppare la pastorizia, dedicarsi al facile allevamento, anziché rischiare grossi capitali nelle colture. La classe feudale fu così contraria all'editto delle chiudende, emanato nel dicembre del 1820, con l'intento di stabilire i confini delle proprietà, i diritti immobiliari di ciascuno e di incrementare la produzione delle terre. L'editto, applicato male perché nell'isola non esisteva un catasto, né esistevano documenti relativi agli immobili, fu causa di molti abusi; appezzamenti da rispettare, corsi d'acqua, strade, sentieri, fonti riservate a tutti, finirono con l'essere recintati, pur essendo tutto ciò vietato.
I pastori si trovarono senza pascoli e insorsero, soprattutto nel nuorese, demolendo le chiusure e dando adito ad una lotta sanguinosa tra loro e gli agricoltori. I terreni del demanio feudale non erano stati contemplati dall'editto e, mentre i vassalli poveri furono danneggiati e i ricchi, i più forti, poterono esercitare la prepotenza e compiere abusi a loro vantaggio, la posizione dei feudatari rimase immutata.
Le riforme di Carlo Felice, che culminarono con la codificazione del 1827, non portarono un contributo decisivo alla soluzione del problema, che presentava ancora molti lati negativi e che fu affrontato da Carlo Alberto; l'abolizione del feudalesimo, da lui attuata, non scaturì dalla volontà popolare, ma avvenne attraverso leggi dello Stato che i tempi consentivano.
Il feudalesimo cadeva così in Sardegna, dopo cinque secoli di vita, per concessione sovrana. Tra il 1835 e il 1838 venivano emanati i vari provvedimenti utili alla scomparsa del regime feudale; da prima, nel dicembre del 1835, veniva istituita una Regia Delegazione con il compito di raccogliere per ciascun feudo, in base alla denuncia dei vari feudatari, l'insieme dei dati relativi ai diritti, ai redditi e alla consistenza di ogni territorio; poi, nel maggio del 1836, lo Stato, mediante un indennizzo ai feudatari, sottraeva loro la giurisdizione e l'avocava a sé; inoltre, nel giugno del 1837, venivano abolite tutte le prestazioni e veniva nominata una nuova Regia Delegazione con l'incarico di stabilire il corrispettivo dei diritti dovuti ai feudatari; infine, venivano emanate norme che regolavano il riscatto a favore dei privati e dei comuni e la procedura da seguire per gli eventuali ricorsi contro le Regie Delegazioni. I compensi assegnati ai feudatari per il riscatto, spesso più elevato del valore del loro feudo, furono corrisposti in cartelle di rendita al 5% del debito pubblico e talvolta con la cessione di immobili. Ma la liquidazione gravò soprattutto sugli abitanti dei comuni, e dal riscatto trassero vantaggio in modo particolare i feudatari spagnoli, che erano i maggiori dell'isola e che in sette possedevano diciotto feudi con centottanta villaggi.
Si pensava allora che l'abolizione del feudalesimo avrebbe fatto risorgere la Sardegna; era un primo passo, il quale non poteva sanare di colpo le tristi condizioni che si erano formate nei secoli, ma era senza dubbio l'inizio di una grande trasformazione sociale. La soppressione del regime feudale, oppressivo e basato sugli arbitrii, impostato male da dominatori intenti ad affermare il loro potere politico prima e il loro predominio economico poi, rivolti a sfruttare l'isola più che a sollevarne le sorti, apriva – è vero – nuovi problemi da risolvere accanto a quelli già esistenti, relativi all'agricoltura e alla pastorizia e al regime delle terre, ma avviava la popolazione dell'Isola, che per secoli era stata passiva e supina, verso nuove, migliori condizioni.